Non è bastata la storica stretta di mano tra iraniani e sauditi a Pechino, il 10 marzo 2023. E nemmeno la Dichiarazione di Pechino del 23 luglio scorso, con la quale il ministro degli Esteri, Wang Yi, ha messo d’accordo 14 fazioni palestinesi – Hamas e Fatah in testa – che ora dovrebbero formare un governo di unità nazionale.

Mentre la propaganda sottolinea che la Cina di Xi Jinping «svolge un ruolo chiave nel mantenimento della pace globale», lo scontro aperto tra Teheran e Tel Aviv è intervenuto a ricordare che stabilizzare il Medio Oriente è una fatica di Sisifo, anche per la seconda economia del pianeta, che nella regione ha interessi e “amicizie” sempre più rilevanti.

Pechino non può esercitare su Israele una leva paragonabile a quella degli Stati Uniti, né ha militari schierati nella regione. Non per questo però rinuncerà a provare a fermare l’escalation bellica, esercitando le sue pressioni sull’Iran, entrato negli ultimi anni nella Shanghai Cooperation Organization (Sco), nel gruppo dei Brics e nella Belt and Road Initiative (Bri).

Inoltre, proprio dall’Iran la Cina importa gran parte del greggio che acquista dal Medio Oriente (che a sua volta costituisce oltre la metà delle sue forniture di petrolio). E a Teheran, così come alla Russia sul gas, permette di aggirare le sanzioni sull’oro nero, grazie a transazioni in yuan che bypassano le banche occidentali, contribuendo a tenere in piedi l’economia iraniana e risparmiando miliardi sull’approvvigionamento di energia.

Il tutto in un Medio Oriente che negli ultimi anni per Pechino è diventato sempre più importante per le rotte commerciali della nuova via della Seta (con l’interscambio che è quasi raddoppiato da 262 a 507 miliardi di dollari dal 2017 al 2022), per le importazioni di idrocarburi, per le esportazioni hi-tech e per i rapporti col mondo arabo-islamico.

E così, mentre il segretario del Consiglio di sicurezza russo, Sergei Shoigu, si è precipitato a Teheran, i cinesi – che pure hanno condannato «duramente» gli omicidi del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh e del comandante di Hezbollah Fuad Shukr – stanno esercitando la loro moral suasion in maniera più discreta (e con unico obiettivo la de-escalation), attraverso la loro rete diplomatica. Cina, Iran e Russia nel marzo scorso hanno condotto la loro quinta esercitazione militare congiunta, nel Golfo di Oman.

Sicurezza nazionale

Secondo gli esperti cinesi, le possibilità che l’annunciata risposta iraniana possa innescare un più ampio conflitto regionale sono «minime». Questo perché il timore principale di Teheran è una guerra con gli Stati Uniti, che il regime iraniano proverà a evitare limitando intensità e portata della rappresaglia contro Israele, seppure indirizzandola verso bersagli di livello superiore rispetto a quelli presi di mira nell’aprile scorso e utilizzando i suoi alleati, a partire dall’Hezbollah libanese.

Zhu Yongbiao ritiene che anche Washington non voglia una guerra ma che –  secondo il direttore del Centro di ricerca per la Belt and Road dell’Università di Lanzhou – gli Usa possano essere «manipolati» dal governo Netanyahu, a causa «dell’indulgenza degli Stati Uniti nei confronti di Israele per lungo tempo».

Un’analisi di China Chengxin International (una joint-venture di Moody’s) prevede che gli ultimi drammatici sviluppi nella regione spingeranno comunque l’Iran a instaurare una relazione più stretta con la Cina. Secondo l’agenzia di rating, lo smacco dell’uccisione di Ismail Haniyeh mentre il capo politico di Hamas era ospitato in un edificio governativo a Teheran «intensificherà la ricerca da parte dell’Iran di un rafforzamento della propria sicurezza nazionale e autonomia strategica, per consolidare il suo dominio strategico in Medio Oriente, il che spingerà l’Iran a fare maggiore affidamento sulle forze esterne per costruire il suo sistema di sicurezza e allo stesso tempo sollecitare il suo dispiegamento militare e campo geopolitico, per avvicinarsi a paesi come la Cina».

Per Pechino è fondamentale salvaguardare anzitutto l’accordo raggiunto tra iraniani e sauditi, che rappresenta il prerequisito per stabilizzare una regione sempre più importante per la Cina.

L’attacco di aprile

Già nell’aprile scorso la Cina si è trovata a fare i conti con il lancio di centinaia di missili e droni dalla Repubblica islamica verso Israele. In quell’occasione Pechino aveva condannato duramente l’attacco alla sede diplomatica iraniana in Siria che aveva scatenato la rappresaglia di Teheran. Per poi chiedere moderazione, senza stigmatizzare il contrattacco iraniano neutralizzato dai sistemi di difesa israeliani e statunitensi.

Secondo Ahmed Aboudouh già quella crisi ha messo in luce «i limiti della Cina nel salvaguardare l’accordo tra Riad e Teheran». Per il ricercatore di Chatham House questo si spiega una differenza “strutturale” della diplomazia cinese rispetto a quella a cui siamo tradizionalmente abituati, infatti «ciò è in parte dovuto al ruolo della Cina come mero facilitatore, non come mediatore o garante in stile occidentale dell’accordo, nonostante le percezioni errate nelle capitali occidentali, del Medio Oriente e del Nord Africa».

Per Aboudouh nello scenario peggiore possibile che potrebbe materializzarsi nei prossimi giorni, quello di un conflitto più ampio, «ci si potrebbe aspettare che la Cina applichi lo stesso schema utilizzato durante gli attacchi degli Houthi nel Mar Rosso: un attento atto di bilanciamento, con l’obiettivo finale di proteggere i propri interessi economici, castigando al contempo Stati Uniti e Israele».

Ciò non toglie che, con gli Stati Uniti che negli ultimi anni si sono parzialmente disimpegnati dal Medio Oriente – dopo essere riusciti ad aumentare l’estrazione di materie prime energetiche in patria – Pechino sarà costretta a impegnarsi sempre di più, diplomaticamente e politicamente, in una regione diventata strategica per lo sviluppo socioeconomico della Cina.

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