Chissà se al momento del suo ritorno in Israele dopo dieci anni Avera Mengistu sia riuscito a conversare in ebraico con i soldati che lo recuperavano dai funzionari della Croce Rossa, o se abbia fatto fatica ad articolare le parole. Chissà che cosa abbia provato nel fare ritorno nella sua patria adottiva, dove la famiglia era arrivata dall’Etiopia quando lui aveva solo 5 anni pensando di trovare nello stato ebraico un porto sicuro.

Chissà se dopo così tanto tempo si fosse abituato a una sua quotidianità di Gaza, per quanto sotto sorveglianza, o se abbia fatto una vita a tutti gli effetti da prigioniero. Se fosse rimasto consapevole della sua identità oppure se, complici i suoi disturbi mentali, avesse perso il senso delle sue origini e del tempo. E ancora: chissà se nel momento del rilascio abbia provato un moto di gratitudine verso il governo, o se invece provi rancore verso un paese che così a lungo lo aveva dimenticato.

Molte delle stesse domande riguardano anche Hisham al Sayed, un israeliano di etnia beduina anch’egli rilasciato sabato 22 febbraio nell’ambito della tregua dopo 10 anni di vita a Gaza. Insieme a loro sono stati liberati quattro ostaggi israeliani rapiti il 7 ottobre: Eliya Cohen, Omer Wenkert, Tal Shoham e Omer Shem Tov, che durante la cerimonia di Hamas ha improvvisato due baci goliardici stampati sulla fronte dei miliziani. Nella notte era stato riconsegnato anche il corpo di Shiri Bibas, dopo che giovedì i militanti palestinesi avevano mandato quello sbagliato.

Dieci anni

Nell’aprile 2015 Hisham era entrato a piedi di sua sponte nella striscia, proprio come il suo compagno di sventure Mengistu. I due, che probabilmente non si sono mai conosciuti, hanno vissuto vicende parallele. La striscia, dopo il ritiro israeliano del 2005, era divenuta un territorio off-limits per gli israeliani. Malgrado fossero civili, e nel suo caso un residente arabo-musulmano del deserto del Neghev, Hamas li dichiarò prigionieri. «Non gli ho più parlato da allora», aveva raccontato qualche settimana fa Sha’aban al Sayed, il padre, al telefono con Domani.

Nel decennio trascorso da allora gli sforzi delle famiglie non erano bastati a mobilitare governo e società civile per trovare un accordo con Hamas per il loro rilascio. Il fatto che entrambi appartengano a minoranze socialmente svantaggiate della società israeliana può non avere aiutato.

Quando prima della guerra si discuteva di uno scambio con Yahya Sinwar, il leader di Hamas ucciso da Israele lo scorso ottobre, si parlava più che altro dei corpi di Oron Shaul ed Hadar Goldin, caduti nel conflitto del 2014, e solo in seconda battuta di Mengistu ed Al Sayed.

È paradossale che proprio Sinwar, con la decisione di lanciare un attacco contro Israele il 7 ottobre 2023, abbia infine, indirettamente, creato le condizioni per un loro rilascio. Dopo l’inizio della guerra le due famiglie hanno unito le forze con il grande movimento per la liberazione degli ostaggi, e ritrovato in questo modo anche un peso politico. Quando il secondo accordo si è finalmente concretizzato, anche loro sono rientrati nelle liste. Ciò che oramai sembrava inimmaginabile è diventato possibile.

Lo scambio

In dettagli trapelati attraverso una decisione del gabinetto di governo israeliano sull’accordo di tregua si legge che la liberazione dei due è specificamente legata al rilascio da parte di Israele di «47 prigionieri di sicurezza rilasciati nell'ambito dell'accordo Shalit [e poi riarrestati]». Questi fanno parte dei 602 palestinesi che Israele si è impegnato a liberare sabato.

Il controverso accordo Shalit, risalente al 2011, aveva visto la liberazione del soldato israelo-francese Gilad Shalit in cambio di 1,027 prigionieri palestinesi, fra cui lo stesso Sinwar. Secondo la famiglia di Avera Mengistu il prezzo così oneroso per Israele avrebbe influito negativamente, negli anni successivi, sulla volontà del governo di imbarcarsi in nuove trattative con il movimento Hamas.

Con questo meccanismo si è prolungata la cattività di Mengistu e quella per certi versi ancora più assurda di Hisham al Sayed. La comunità beduina del Neghev, infatti, ha rapporti tribali e familiari con i beduini di Gaza, a cui è geograficamente molto vicina, malgrado siano rimasti divisi da una barriera politica. Fanno parte in un certo senso di una società comune (lo stesso ex capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ucciso da Israele lo scorso 31 luglio, aveva parenti fra i beduini del Neghev).

Tale contiguità non è però bastata a garantire un trattamento speciale ad Hisham al Sayed. L’unica concessione di Hamas, nella giornata di sabato, è stata quella di risparmiargli la “cerimonia” di librazione riservata agli altri israeliani (Hisham è peraltro molto malato). Il suo rilascio è l’ultimo previsto nella fase uno, e suggella di fatto il primo capitolo della tregua. Il secondo e il terzo sono tutti da scrivere.

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