Il giurista a Rimini: «Scioccato dalla capacità di leadership dei dem». L’attentato a l tycoon già dimenticato perché «non era un atto politico»
Due eventi hanno segnato la campagna elettorale fino a questo momento: il tentato omicidio di un candidato che ha scioccato il paese ed è stato prontamente dimenticato, e lo storico avvicendamento del presidente “incumbent” per manifesta incapacità di garantire altri quattro anni di governo.
Nella convention di Chicago si doveva celebrare una riedizione delle violenze di quella tenuta nel 1968, esito delle profonde fratture nel mondo democratico, e invece è iniziata come un pacifico rituale di riconciliazione in cui le divergenze interne sono gestite in modo tutto sommato sobrio.
Allo stesso tempo, Donald Trump sembrava lanciato verso una vittoria annunciata. L’orecchio fasciato dopo lo sparo testimoniava l’odio del mondo nei suoi confronti – conferendogli l’aura della vittima – e la scelta di J.D. Vance come vice mostrava la sua rinnovata capacità di capire e rispondere al risentimento dell’America senza voce. Anche questo scenario si è rovesciato nel giro di poche settimane.
Ma questi sviluppi ci dicono anche qualcosa di più profondo sullo stato della democrazia americana. Paul Kahn, intellettuale e professore di diritto a Yale, qualche anno fa ha raccolto le sue riflessioni sulle patologie della democrazia americana nel libro Democracy in Our America, che riflette sulla crisi non attraverso l’analisi dai grandi fenomeni, ma tramite il racconto della cittadina in Connecticut dove ha vissuto per 25 anni e che vede progressivamente scomparire luoghi aggregativi, corpi intermedi, giornali, soggetti per l’impegno civico e la partecipazione sociale.
È su questo sfondo di disgregazione sociale che si muovono gli eventi della campagna elettorale, ed è questo il tema su cui Kahn dialogherà il 22 agosto alle 17 al Meeting di Rimini assieme al giurista Joseph Weiler.
Il tentato omicidio di Trump, dice Kahn a Domani, «ha avuto un impatto quando è successo, ma poi è incredibilmente scivolato via dal dibattito, ce ne siamo tutti quasi dimenticati».
Perché è successo? Siamo ormai troppo assuefatti al male?
Non solo. È successo perché non è stato un episodio di violenza politica. Ora sappiamo che l’autore era un giovane estremamente problematico che voleva quello che vogliono tanti come lui: diventare famoso, essere riconosciuto per qualcosa. Il suo gesto non aveva nulla a che fare con Trump, prima di sparare aveva cercato molti altri politici, incluso Biden, e altri personaggi famosi. Non aveva un piano o un programma ideologico. E infatti l’episodio non sposterà un voto.
Non era un gesto politico in senso stretto, però anche la violenza generalizzata e senza scopo è un dato politico più generale, non le pare?
Purtroppo sì. La cultura della violenza che abbiamo creato attira ragazzi e giovani uomini fragili e disturbati che non sono determinati da moventi particolari. Vedono le stragi come mezzi per affermare la propria esistenza. La combinazione con una cultura in cui le armi da fuoco sono ovunque è letale, e rifiutare di vedere il legame fra le pistole e le stragi è semplicemente assurdo.
In fondo il tentato omicidio è stato un evento normale per l’America di oggi.
La violenza può portare alle riforme oppure generare altra violenza. È evidente che il paese sta abbracciando la seconda opzione.
Il fatto che ci siamo già dimenticati quell’episodio è grave perché l’oblio deriva dalla rassegnazione generalizzata a dover vivere con una quota di sociopatici che sparano sulla gente più o meno a casaccio. La gente dice “è così, che cosa ci vuoi fare?”. E si passa al prossimo argomento.
La decisione di Joe Biden di ritirarsi dalla corsa, invece, è stata davvero epocale. Alla convention di Chicago non è sembrato entusiasta di cedere il passo, ma il Partito democratico ora è ricompattato e in ascesa.
La vicenda di Biden è importantissima e mostra diverse cose. Innanzitutto, fa vedere la frustrazione della gente verso la politica. Era una corsa fra due uomini vecchi che nessuno amava particolarmente. Il messaggio che davano era che le persone, gli elettori, non contano quasi nulla e non hanno voce in capitolo. Biden è un presidente tutto sommato di successo ma che non ha avuto credito per per quello che ha fatto. La gente vede in lui solo un vecchio signore.
E poi?
Poi c’è Harris, che è stata una sorpresa, per via dell’energia incredibile che ha portato. È una candidata decisamente migliore di quella che era quattro anni fa. La percezione che gli americani hanno di lei è cambiata in fretta, molto più di quanto avrei mai immaginato.
Ma anche i vari maggiorenti del partito come Nancy Pelosi e il clan di Obama sembrano essersi mossi in modo efficace.
Questa per me è la novità più rilevante di tutte. Sono scioccato dalla capacità dei democratici di prendere decisioni, gestire un passaggio così delicato, creare consenso interno e trasmettere all’esterno un senso di sicurezza e unità.
Io ero fra quelli che sosteneva che sarebbe stato meglio fare delle mini primarie o, al limite, una convention aperta. Credevo che il prezzo che il partito avrebbe pagato in termini di credibilità prendendo una decisione con logiche di palazzo sarebbe stato troppo alto. Invece, evidentemente si stava già da tempo lavorando per trovare una soluzione razionale e condivisa all’interno del mondo dem. È stato incredibile vedere che c'era ancora la capacità di farlo.
Sono elementi sufficienti per battere Trump a novembre?
È un inizio. Ma le campagne elettorali sono lunghe, a mio avviso troppo lunghe, e hanno delle variabili difficili da controllare.
Ad esempio?
Le possibilità di distorcere la democrazia attraverso il denaro sono sempre più numerose e creative. I capi degli hedge fund hanno sempre più potere in questo senso.
Non credo sia una questione solo di quantità. Quello che mi preoccupa è la crescente personalizzazione del denaro politico. I super ricchi non vogliono solo influenzare la politica – è sempre stato così – ma vogliono mettere il loro volto e il loro marchio ovunque. Per molti di loro la politica è solo una via per la celebrità. Si comprano i social media per vanità, e sempre per vanità giocano a fare i kingmaker elettorali. In questo, Trump è stato un formidabile apripista.
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