Nella lista dei paesi colpiti dai dazi di Donald Trump uno era assente: la Russia. Eppure, anche se non mirava a colpire il cuore dell’economia del Cremlino, il presidente americano ha rallentato il battito della borsa di Mosca, che ha visto trilioni di rubli polverizzati in pochi giorni dal terremoto finanziario provocato dalle sue tariffe.

Il dardo economico del tycoon Usa – anche se indiretto, e quasi certamente involontario – ha colpito la Russia nel suo tallone d’Achille: il mercato energetico. In particolare, quello del petrolio, chiave di volta dell’export russo, il cui prezzo è collassato sui mercati.

A rischio non c’è solo l’economia della Federazione, ma anche la sua mastodontica macchina da guerra smobilitata ormai oltre tre anni fa contro l’Ucraina, il settore della Difesa (a cui il Cremlino ha destinato circa 136 miliardi di dollari, il triplo di dieci anni fa).

Cambia la strategia

Sono gas e petrolio a pompare un terzo dei fondi nel bilancio statale russo. Ieri il Cremlino è stato costretto ad aggiornare la sua strategia energetica fino al 2050 con un «documento chiave per lo sviluppo dello Stato» che «amplia l’orizzonte di pianificazione e tiene conto delle sfide attuali, consentendo ai settori del petrolio, gas, carbone di rispondere ai cambiamenti in atto nel mondo», come ha detto il premier Mikhail Mishustin.

Traduzione: per adeguarsi al terremoto scatenato dal tycoon, è stata rinnovata la strategia finanziaria. Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha chiamato quella in corso «tempesta economica» e non ha nascosto che «l’indicatore» – quello del petrolio – «è importante in termini di entrate di bilancio. La situazione è estremamente volatile, carica e tesa». I dazi doganali introdotti ignorano le norme del commercio internazionale e «dimostrano che Washington non si considera più vincolata dalle norme del diritto commerciale internazionale».

E ancora: «Qualsiasi shock all’economia mondiale, che minacci un rallentamento della crescita e un calo generale dei consumi, ha un impatto negativo su molti processi globali», ha detto la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova. Nuvole scure le aveva viste arrivare molto prima del ciclone trumpiano Elvira Nabiullina, capo della Banca centrale russa.

Già a febbraio diceva ciò che ha ripetuto anche pochi giorni fa: «Stiamo assistendo a un’escalation di guerre tariffarie», «se dovessero continuare, ciò porterebbe solitamente a un declino del commercio globale, dell’economia globale e forse anche della domanda delle nostre risorse energetiche».

Le entrate russe derivanti dall’export di gas e petrolio erano già diminuite del 10 per cento nel primo trimestre (2.600 miliardi di rubli). Per il ministero delle Finanze russo si tratta di oltre 65 miliardi di rubli in meno rispetto alla pianificazione di bilancio: il dicastero teme che, per il calo dei prezzi dell’oro nero, il deficit che potrebbe risultare maggiore del previsto.

Nei giorni scorsi il segno meno è apparso davanti alle percentuali di tutti i titoli dei maggiori colossi energetici russi, dalla Gazprom alla Lukoil, fino a tutte le altre ciclopiche aziende sorelle. Ma non è quella cifra volatile che domani sarà cambiata ad essere fondamentale, quanto piuttosto l’evoluzione a lungo termine della crisi e le sue conseguenze secondarie. Trump, con i dazi, ha ridotto la capacità dei compratori asiatici di Mosca, colpendo maggiormente l’unico, vero potente alleato che le rimane in questo preciso momento storico: Pechino.

In termini elementari: più sono i dazi imposti ai paesi rimasti solidali ai russi (con il mercato Ue blindato), meno sono le entrate per Mosca. La borsa russa ha registrato sequenze consecutive di perdite quasi come non si verificava dai tempi del default russo del 1998. Secondo i calcoli del Financial Times, «se i prezzi del petrolio si manterranno vicini ai livelli attuali, la Russia potrebbe perdere circa mille miliardi di rubli quest’anno, l’equivalente del 2,5 per cento delle entrate di bilancio previste», con una diminuzione della crescita del Pil dello 0,5 per cento.

Negli ultimi giorni il greggio russo Urals è sceso al livello più basso degli ultimi due anni: circa 50 dollari a barile (e non a poco meno di 70 dollari, come previsto dalle stime su cui la Russia ha basato il suo budget 2025).

C’è altro. Il Trump team ha detto di aver esentato la Russia dalle tariffe doganali per l’assenza di scambi commerciali e la muraglia di sanzioni già in vigore dal 2022 (o ancor prima). Non è quello che però dicono i documenti delle stesse autorità Usa: qui si legge che nel 2024 le esportazioni di beni russi verso gli Usa hanno raggiunto un totale di oltre tre miliardi di dollari.

Criticano i giornalisti del media The Bell: «Se applicassimo la formula usata da Trump per determinare l’entità dei dazi sui partner commerciali, allora la Russia avrebbe dovuto essere colpita da dazi del 40 per cento». C’è chi sostiene che l’esclusione di Mosca dal colpo inferto dal repubblicano sia anche dipesa dall’intervento di Kirill Dmitriev, nominato da Putin “inviato speciale per la cooperazione economica”, il laureato di Stanford che prima di diventare capo del Fondo russo per gli investimenti diretti era un ex banchiere della Goldman Sachs.

A dazi sospesi (per 90 giorni), ma non a conseguenze arginate per i danni provocati, il timore di recessione globale rimane. Se la situazione finanziaria non migliora, in Russia, uno shock economico si avviterebbe all’interno di quello bellico.

© Riproduzione riservata