Toni sopra le righe, atmosfera circense, insulti agli avversari. L’ultimo comizio del tycoon ha superato ogni limite possibile
Toni sovraccarichi, atmosfera circense, insulti, misoginia e non poco razzismo. Lo spettacolo del comizio di Donald Trump al Madison Square Garden di New York ha offerto tutto il campionario del trumpismo e del suo peggio.
Dopo l’attentato di luglio, qualche commentatore azzardò che lo scampato pericolo e la quasi certa vittoria contro Biden avrebbero potuto finalmente moderare e “civilizzare” istituzionalmente Trump: farlo calare nelle parti di un presidente capace di offrire un messaggio inclusivo con cui sanare le divisioni di un paese sempre più spaccato.
Una previsione, e un auspicio, in fondo non dissimili da quelli che seguirono alla vittoria elettorale del 2016 e al presunto effetto moderatore che la Casa Bianca avrebbe potuto esercitare su Trump. Non dissimili e parimenti irrealistici, come abbiamo potuto vedere. Perché questo è Donald Trump.
L’imbarbarimento
Perché queste sono le dinamiche di una democrazia polarizzata e in sofferenza quale è quella statunitense. E perché dentro un processo di radicalizzazione della contrapposizione politica, d’imbarbarimento del discorso pubblico e di reciproca delegittimazione tra democratici e repubblicani, sono i secondi a essersi maggiormente radicalizzati, come evidenziano peraltro molteplici indicatori, a partire dagli orientamenti di voto al Congresso o dall’effetto del meccanismo di selezione delle primarie. Anche per gli standard di questa America polarizzata, fa però non poca impressione assistere a uno spettacolo indecente come quello di New York, dove i vari intervenuti hanno presentato Kamala Harris come una prostituta o l’«anti-Cristo» e descritto Porto Rico «un’isola flottante d’immondizia». E dove uno dei principali consiglieri di Trump, Stephen Miller, ha ribadito il credo nativista secondo il quale «l’America è per gli americani, e solo per gli americani».
Una visione statica ed essenzialista di quel che gli Usa sono e debbono essere, che fa a pugni con la loro esperienza storica, ma che pesca tra alcuni dei momenti più oscuri di questa esperienza per identificare una genealogia del movimento trumpiano – il Maga (Make America Great Again) – di oggi. Un nazionalismo estremo e discriminatorio, quello del Maga, che si nutre di nostalgie vicine e lontane, su tutte quella degli edenici anni Cinquanta di un’America prospera, ottimista e a-conflittuale, che trovava la sua sublimazione nell’esplosione dei sobborghi, e dove le gerarchie razziali erano inscalfibili e se necessario preservate con la violenza, ovvero quella, a noi più vicina, antecedente la grande crisi del 2008, quando finanza deregolamentata, credito facile e speculazione immobiliare permettevano una crescita senza sosta dei consumi a debito.
A chi parla Trump?
A queste passate Americhe – immaginate, inventate e idealizzate – Trump si affida per offrire un messaggio ruvido, politicamente scorretto e non di rado violento, come appunto quello del Garden. Un messaggio dal quale l’ex presidente non ha mai saputo e voluto affrancarsi.
Perché quelli sono la sua cultura e il suo lessico. E perché sono essi che in fondo gli hanno permesso il raggiungimento di una fama e di un potere semplicemente impensabili fino a non molti anni fa, quando Trump era il bancarottiere parvenu, condannato più volte per frodi (ultima quella della sua farlocca Trump University), tenuto ai margini del mondo che contava davvero.
Un paese sfilacciato
Trump è però il prodotto e non la causa della polarizzazione, della radicalizzazione dello scontro politico e della più generale sofferenza della democrazia americana, per quanto sia poi diventato uno dei suoi agenti più potenti.
È il mostro uscito dal laboratorio di questa sofferenza. Della fatica e indebolimento di una democrazia che non ha saputo difendere e proteggere una parte dei suoi cittadini, vittime di processi economici che ne hanno eroso tutele e certezze, alimentando diseguaglianze estreme di reddito e ricchezza.
Di una democrazia che ripensava ed estendeva i diritti civili, e il loro vocabolario, senza che questi fossero accompagnati dalla parallela estensione di diritti sociali. Che assisteva a trasformazioni demografiche profonde, prodotto anche delle riforme sull’immigrazione introdotte a partire dagli anni Sessanta, che si faticava a governare. E che non aveva nemmeno la forza di sanzionare l’azione eversiva di Trump successiva al voto del 2020, approvandone il necessario impeachment.
Di una democrazia, infine, dove gli slogan e i concetti espressi nel comizio di New York non solo non squalificano più, ma sembrano oggi portare voti e galvanizzare i propri elettori.
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