Anche se i danni dell’ultima escalation sono contenuti, i razzi impongono un continuo stato di allerta e dividono la popolazione. Nell’opinione pubblica ebraica israeliana molti considerano la guerra necessaria per rimuovere le minacce dai confini. Le voci arabo-israeliane invece tendono a invocare la fine della guerra
Dor Cohen è uno studente di 24 anni che abita nel distretto di Kiryat Bialik a Haifa, nel nord di Israele. Quando qualche giorno fa i miliziani libanesi di Hezbollah hanno preso di mira la sede della Rafael, un’importante azienda statale israeliana nel settore della difesa, il razzo è andato fuori bersaglio di circa mezzo chilometro. Il sistema di difesa anti-missilistico iron-dome, che è gestito proprio dalla Rafael, non ha funzionato, e il razzo ha colpito la strada davanti alla sua casa.
Chiusi nella stanza sicura al momento dell’impatto, Dor e altri due parenti sono rimasti illesi. Solo suo nonno, che abita con lui, non ha fatto in tempo a mettersi al riparo al suono degli allarmi, ed è finito in ospedale con una scheggia nell’occhio. È fra i pochi feriti israeliani nell’ultima escalation con Hezbollah, precipitata dallo Stato ebraico a inizio settimana, che ha fatto oltre 600 vittime nel Paese dei Cedri. Temendo bilanci più gravi in Israele, l’ospedale Rambam a pochi chilometri di distanza ha trasferito i pazienti in un parcheggio sotterraneo. Il personale è provato dai continui allarmi, spesso notturni, che provocano ansia nella popolazione.
«Attacchiamo più forte»
Ma il numero relativamente basso di feriti israeliani provocati dagli attacchi di Hezbollah consente al governo Netanyahu di intensificare i raid in Libano, fino al bombardamento di venerdì sera su Beirut in cui è stato ucciso il leader Nasrallah, anche a fronte della pioggia di razzi. Un atteggiamento aggressivo che gode del sostegno di tanta parte del pubblico ebraico israeliano. Lo stesso Dor, davanti all’edificio squarciato dall’esplosione, dice: «Spero che la situazione peggiori, così poi li attacchiamo più forte». E ancora: «Spero entreremo via terra, anzi spero proprio di entrare io stesso come soldato».
Dor fa parte di un’unità speciale della brigata di fanteria “Givati” e ha passato diversi mesi dell’anno appena trascorso a Gaza, a partire dalla prima invasione di terra israeliana a fine ottobre 2023. È stato a Shejayaa, Khan Yunis, Jabalia. Mentre alcuni operai arabo-israeliani lavorano per rimettere in sesto la sua casa, dice, riferendosi ai palestinesi di Gaza: «Loro sono messi molto peggio. Devono abbattere tutto prima di poter ricostruire».
Gli dico che nel mondo Israele è criticato per aver ucciso molti civili innocenti a Gaza. Lui non nega e risponde: «Ho visto quello che hanno fatto il 7 ottobre, quindi non mi interessa, se lo sono meritato. E in ogni casa in cui siamo entrati nella striscia abbiamo visto segni del sostegno degli abitanti ad Hamas».
«Il mondo ci odia»
A Gaza, quando i commilitoni dormivano, Dor studiava ingegneria per non rimanere indietro all’università usando materiali salvati sul telefonino. Durante uno dei due periodi passati a Gaza ha trascorso lunghe giornate a monitorare i corridoi umanitari organizzati da Israele per i civili in fuga. Ripensando all'esperienza nella striscia, dice: «Sono tutti pazzi, lì». Ma ora guarda al confine settentrionale.
Alissa Feighi, una vicina di Dor, è a sua volta favorevole all’escalation in Libano. «È un anno che ci sparano e appena, a inizio settimana, abbiamo reagito, l’Onu se l’è presa con noi. Il mondo ci odia», dice. La trentaquattrenne originaria della Bielorussia ha da poco divorziato da un marito ultraortodosso di Beit Shemesh, ma indossa comunque la parrucca secondo il costume dei religiosi. Commentando i tentativi di mediazione promossi da Stati Uniti e Francia si dice contraria: «Gli accordi e i cessate il fuoco non funzionano, Hezbollah deve allontanarsi dalla frontiera».
La soluzione più ovvia, cioè stringere un accordo per il cessate il fuoco e il ritorno degli ostaggi a Gaza, in modo che anche Hezbollah smetta di sparare, è merce rara sulla bocca degli israeliani. Appare forse troppo provvisoria a un pubblico che, ancora traumatizzato dall’attacco subito all’inizio della guerra, vuole liberarsi da qualsiasi minaccia sui confini. Nuovi manifesti apparsi nelle strade tentano di conciliare questo punto di vista con l’imperativo di salvare gli ostaggi ancora a Gaza: «Machzirim ve Hozrim», si legge di fianco alle immagini di una famiglia che si abbraccia e di un carro armato israeliano che fa fuoco: «Riportiamoli a casa [gli ostaggi] e poi torniamo [con l’esercito a Gaza]».
«Basta guerra»
Tutt’altre reazioni si registrano intervistando i palestinesi israeliani della Galilea. A Nof HaGalil, una cittadina israeliana limitrofa a quella araba di Nazareth (fino al 2019 si chiamava, infatti, Nazareth Illit) Halil Haddad non vede l’ora che la guerra finisca. «Per 11 anni ho fatto da guida turistica a pellegrini americani, mi divertivo e guadagnavo bene», racconta. «Ora supervisiono la comunicazione sui social media di Radio Alshams, una rete locale in arabo: devo stare attento che i post non possano sembrare sovversivi alla polizia israeliana».
Haddad si definisce «arabo per etnia, palestinese per nazionalità, cristiano di religione e israeliano per cittadinanza». Secondo lui «Netanyahu vuole trascinare in guerra gli Stati Uniti in modo che debellino l’arsenale nucleare iraniano», spiega mescendo un prelibato arak locale. A differenza di molti arabo-israeliani della Galilea, abitando in quartiere nuovo, Haddad ha a disposizione una stanza sicura. «È divenuta obbligatoria per le abitazioni costruite dal 1994 in poi», spiega.
Non è così per Shahin Nasser, che abita nel vecchio quartiere di Wadi Nisnas nel centro di Haifa. Quando ci sono le sirene a volte va in strada per guardare il cielo, sperando di godersi lo spettacolo di un’intercettazione. «Netanyahu vuole mantenere la sua poltrona», dice, commentando la situazione. Traduttore quasi quarantenne, Shahin era collaboratore di studi legali che seguivano i lavoratori palestinesi in conflitto con i datori di lavoro israeliani. Ma dopo il 7 ottobre, molti permessi sono stati revocati: oggi si stima solo un terzo della forza lavoro transfrontaliera palestinese sia ancora attiva in Israele. Ed è venuto meno anche l’indotto per gli studi e per i traduttori. «Nessuno vuole la guerra», dice Shahin.
A Tamra, una cittadina arabo-israeliana di fianco al villaggio dal nome pittoresco di “Kabul”, il trentenne Mohammed Jad Awad si è visto piovere un razzo sul muro laterale del suo supermercato. Davanti al buco scavato dall’impatto il giovane esercente ha solo una parola per commentare la guerra in corso: «Halas», dice facendo un gesto stizzito con le mani, «facciamola finita».
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