Full Trump. Il candidato repubblicano ha vinto la presidenza e preso tutto, incluso il controllo del Senato e probabilmente della Camera.

L’alleanza conservatrice che ha portato per la seconda volta al potere Donald Trump è sostanzialmente diversa da quella che gli aveva permesso di sconfiggere Hillary Clinton nel 2016. Egli ha costruito un patto con la società americana nell’ultimo anno: l’oligarchia finanziaria e l’accelerazione tecnologica da una parte; la conservazione identitaria e la protezione sociale dall’altra.

Trump ha coltivato un elettorato estremamente eterogeneo, capace di unire le classi sociali medio-basse di aree interne e periferie, questa volta anche di una certa varietà etnica e non soltanto più working class bianca, con un pezzo sostanzioso dell’establishment americano. Questa è la grande novità sottovalutata da gran parte degli analisti di questa competizione elettorale presidenziale.

Il primo Trump era il populista puro che saccheggiava un partito repubblicano ridotto ai minimi termini, la scheggia impazzita che somigliava a un Joker amato soltanto dall’America deindustrializzata, un candidato vincitore perché fortunato nel trovare sulla propria strada Hillary Clinton, che sbagliò clamorosamente nel 2016.

Il primo Trump era un salto nel buio di cui dubitavano anche molti intellettuali conservatori, tenuto a distanza da tutti i magnati della nuova industria tecnologica, guardato con timore da Wall Street, avversato da quasi tutti i media.

Il secondo Trump

Il Trump di oggi si presenta come una creatura molto diversa da quella del 2016 e soprattutto dal presidente uscente sconfitto che a inizio 2021 benediceva l’insurrezione al Congresso dei suoi supporter estremisti. Quello era un Trump sovversivo ripudiato dall’establishment, considerato pericoloso per le istituzioni repubblicane, rigettato dall’apparato di intelligence.

Il secondo Trump ha scardinato l’unità dell’establishment americano, ha costruito un nuovo mainstream, non ha soltanto vinto le elezioni, ma ha cambiato il quadro politico proiettando avanti il partito repubblicano anche nel voto popolare. Ciò per dire che non siamo di fronte a un incidente della storia, come si poteva pensare nel 2016, ma ci troviamo davanti a un cambiamento profondo nella struttura di potere e nella cultura del più importante paese al mondo.

Non è più una momentanea rivoluzione populista, è l’oscillazione di un sistema da un polo a un altro, la ricezione finale in tutte le istituzioni di istanze che solo dieci anni fa non erano pensabili come programma di governo se non nei sogni di qualche disagiata minoranza. Il secondo Trump segna un momento di rottura nella classe dirigente americana. Gli altri leader europei devono avere bene in mente questo quadro prima di muoversi.

Le incognite

E qui veniamo proprio alle implicazioni per l’Europa e per l’Italia. Prima di tutto, l’impatto di Trump non va estremizzato. Nel 2020, quando ha concluso il suo primo mandato, nella Nato poco era cambiato e in Europa c’erano più soldati americani che nel 2016 nonostante i tweet roboanti. Sugli altri fronti non fece nulla di disastroso: i dazi sulla Cina furono negoziati e accettati da Pechino senza ripercussioni tragiche, gli Accordi di Abramo tenuti a battesimo da Trump tra Israele e i sauditi furono positivi e ancora reggono oggi, l’Iran venne indebolito dalle manovre americane, l’invasione dell’Ucraina si è materializzata con Biden alla Casa Bianca e non con lui.

Certo, Trump, come notato dallo storico Niall Ferguson e dagli uomini della politica estera repubblicana come John Bolton e Mike Pompeo, resta imprevedibile in politica estera. Ciò vale soprattutto per le scelte verso l’Ucraina. Nello scenario peggiore, può trovare subito una pace con Putin sacrificando la difesa dell’Ucraina e dell’Ue, mentre in quello migliore può progressivamente chiedere agli europei di farsi carico delle forniture militari ucraine. Incerta è anche la questione del protezionismo. Il primo obiettivo resta la Cina, ma Trump alzò i dazi anche sui prodotti europei. Non ne ha fatto menzione, ma ci si può aspettare una stretta ulteriore con pregiudizio delle esportazioni europee.

Queste sono le incognite principali, ma Trump non può diventare l’alibi dei governanti europei, l’uomo nero su cui scaricare la colpa dei mali del continente.

Non è certo colpa di Trump se l’economia europea annaspa, se in Francia Macron ha dilapidato il proprio capitale politico, se la coalizione tedesca si scioglierà dopo aver preso scelte sbagliate sul fronte delle politiche green e industriali, se l’Ue da anni discute di autonomia strategica senza aver fatto un solo passo in avanti, se i paesi del vecchio continente non sono in grado, dopo un decennio di avvisaglie americane, di provvedere alla propria difesa.

Il piagnisteo europeo per la vittoria di Trump dovrebbe lasciar spazio a pragmatismo e concretezza. Se Trump spingerà per una maggior contribuzione europea alla Nato, allora i leader europei scorporino le spese militari dal Patto di stabilità. Se gli americani alzeranno le barriere doganali ulteriormente, si facciano politiche per rafforzare la domanda interna di quello che è il più grande mercato unico al mondo. Ciò vale anche per l’Italia, che sul piano politico tra i grandi paesi europei è quello che oggi sta meglio. A Roma c’è un governo stabile e con prospettive di legislatura, al contrario degli altri maggiori paesi, Meloni si ritrova in stretto rapporto con Elon Musk che è divenuto il centro del progetto trumpiano, il rapporto tra governo italiano e diplomazia americana è consolidato, i prodotti italiani esportati in America sono quasi tutti di alta gamma e dunque meno colpiti da eventuali aumenti di dazi. Meloni, invece di giocare in difesa, prigioniera del suo passato euroscettico, dovrebbe prendere l’iniziativa in Europa e spingere per andare avanti su questi punti.

Il ritorno di Trump non è un dramma, ma un fatto. Ed è possibile anche che per un lungo ciclo politico gli Stati Uniti non ritornino indietro all’epoca dei Clinton e dei Bush. Meglio che i leader europei se ne facciano una ragione e inizino a lavorare sulle questioni fondamentali. Senza piagnistei e senza dare tutte le colpe del lungo declino europeo all’orco della Casa Bianca.

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