Dopo Aleppo e Idlib anche la città di Hama è stata conquistata dai ribelli jihadisti filo turchi del gruppo Hayat Tahrir al-Sham. In meno di dieci giorni sono stati in grado di avanzare per circa cento chilometri. Nella notte i ribelli avevano circondato la citta che nel 1982 è stata teatro di un sanguinoso scontro con le forze filogovernative in tre punti diversi. In poco tempo l’esercito siriano ha annunciato la capitolazione: «Nelle ultime ore (...), gruppi terroristici sono riusciti a sfondare diversi fronti della città e ad entrarvi», aggiungendo che le sue forze si sono «ridistribuite fuori città».

Il leader dei ribelli, Abu Mohammed al-Jolani, non vuole ulteriore spargimento di sangue in questa fase del conflitto civile che sta ottenendo anche il consenso di migliaia di siriani che negli anni si sono rifugiati in Turchia e ora vogliono tornare in patria. «Chiedo a Dio onnipotente che sia una conquista senza vendetta», ha detto.

Ora il gruppo controlla la sede della polizia, e la base aerea militare dove c’è un importante carcere. La caduta di Hama è preoccupante per il regime di Bashar al Assad perché apre la strada per avanzare a Homs e poi a Damasco, distante poco medo di duecento chilometri. Lo sa anche l’esercito che ha spostato 200 veicoli militari verso sud a presidiare Homs, prossimo obiettivo dei ribelli prima di arrivare alla capitale. Non solo, il controllo di Hamas permette anche alle milizie jihadiste di mettere mani al commercio interno. Se anche Homs dovesse arrendersi ai ribelli, il regime di Assad deve sperare in un duro intervento militare dei suoi alleati (Iran e Russia) per rimanere al potere.

Fuga e sfollati

Lo scenario di guerra preoccupa sempre di più la comunità internazionale. L'ambasciata cinese in Siria ha consigliato ai suoi cittadini di lasciare il paese «il prima possibile, finché sono ancora disponibili voli commerciali», visto il «crescente peggioramento delle condizioni di sicurezza». Intanto secondo il World Food Programme l’avanzata dei ribelli ha causato almeno 280mila sfollati nel nord della Siria, mentre secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani sono morte almeno 727 persone dal 27 novembre scorso con «violazioni e crimini» commesse dall’esercito nei confronti della popolazione curda che vive nelle campagne di Aleppo.

«Decine di migliaia di civili sono a rischio in una regione già in fiamme», ha detto il Segretario generale delle Nazioni unite, Antonio Guterres, che ha chiesto la fine dei combattimenti e l’avvio di un «dialogo serio».

Diplomazia

Il ruolo della Turchia a sostegno dei ribelli per rovesciare Assad è sempre più chiaro e rischia di isolare a livello internazionale il presidente Recep Tayyip Erdogan. «Le nostre truppe adottano tutte le misure per mantenere la stabilità nella regione e continua la stretta cooperazione e il coordinamento con le nostre controparti», ha affermato il ministero della Difesa turco.

«Rispettiamo gli accordi che abbiamo stipulato nelle aree operative nel nord della Siria e ci aspettiamo che anche i nostri interlocutori li rispettino», aggiunge il comunicato. Ankara si riferisce agli accordi siglati ad Astana da Turchia, Russia e Iran nell’ambito del processo politico di Astana. «Non permetteremo che l’organizzazione terroristica Pkk (il Partito dei Lavoratori del Kurdistan)/ Ypg (le forze curde siriane), che rappresenta una seria minaccia all'integrità territoriale e alla sovranità della Siria e alla sicurezza della nostra regione, tragga vantaggio dall’instabilità regionale», dice il ministero turco.

Intanto si muovono anche altri partner. Ieri il ministro degli Esteri dell'Egitto, Badr Abdelatty, ha tenuto colloqui telefonici con gli omologhi di Turchia, Iran, Emirati Arabi Uniti e la stessa Siria. Mentre un incontro ministeriale sulla Siria potrebbe tenersi entro la fine della settimana, secondo quanto affermato dal ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov.

Il caso Amnesty

Il nuovo segretario di Hezbollah, Naim Qassem, ha schierato pubblicamente il movimento sciita al fianco di Damasco e ha accusato Israele di aver violato la tregua almeno sessanta volte da quando è entrata in vigore poco più di una settimana fa. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu monitora da vicino la situazione mentre sul fronte interno continua a essere in difficoltà.

Ieri in un rapporto dell’organizzazione per i diritti umani Amnesty international il governo è stato accusato di commettere un genocidio nella Striscia di Gaza. Una notizia che è stata respinta con forza dalle autorità dello stato ebraico ma anche dalla sede locale di Amnesty che ne ha preso le distanze. Il ministro degli Esteri ha definito l’organizzazione «deplorevole e fanatica» che «ancora una volta ha prodotto un rapporto falso».

Come se non bastasse ieri la Corte di Gerusalemme ha stabilito che il premier dovrà testimoniare tre volte a settimana dalle 10 alle 16 nei processi in cui è coinvolto per corruzione, frode e abuso di fiducia, respingendo così la sua richiesta di diminuire le sue apparizioni in aula per via della guerra.

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