Keir Starmer ha pronunciato il suo primo discorso da Downing street dopo aver ricevuto mandato ufficiale da re Carlo III a formare il prossimo governo. Le sue prime dichiarazioni vanno nella direzione di una riconciliazione del paese, che ha ricoperto di voti i laburisti dopo 14 anni di governo dei Tories. «Che abbiate votato laburista o meno, in effetti, soprattutto se non lo avete fatto, ve lo dico direttamente. Il mio governo vi servirà. La politica può essere una forza positiva. Lo dimostreremo. Abbiamo cambiato il partito laburista, lo abbiamo rimesso in servizio, ed è così che governeremo. Prima il paese, poi il partito» ha detto il nuovo primo ministro promettendo di ricostruire il Regno Unito «mattone dopo mattone».

«La mancanza di fiducia nella politica britannica può essere sanata solo con i fatti e non con le parole» ma «possiamo iniziare oggi con la semplice consapevolezza che il servizio pubblico è un privilegio e che il vostro governo dovrebbe trattare ogni singola persona in questo paese, con rispetto» ha continuato.

Le elezioni nel Regno Unito, infatti, sono andate come dovevano andare: con il trionfo annunciato dei laburisti. Già alla chiusura delle urne, la sera di giovedì, i primi exit poll hanno più o meno confermato i sondaggi della vigilia. E a loro volta, a parte qualche discrepanza di alcuni seggi, i risultati finali hanno confermato gli exit poll.

Il premier uscente Rishi Sunak ha rassegnato le sue dimissioni e ha detto che lo farà anche dal partito: «In seguito a questo risultato, mi dimetterò da leader del partito, non immediatamente, ma una volta che saranno stati presi gli accordi formali per la selezione del mio successore».

I risultati delle elezioni

Con solo otto seggi ancora da assegnare, il Labour ha stravinto con 410 contro i 119 dei conservatori, ottenendo così una maggioranza enorme. Un esito che può portare alle dimissioni di Rishi Sunak da leader dei conservatori.

L’altro successo è stato di Nigel Farage, con il suo Reform Uk. Il populista euroscettico, celebre per la sua battaglia per la Brexit, ha guadagnato quattro seggi, tornando alla ribalta e ottenendo milioni di voti. Ottimo risultato anche per i Libdem di sir Ed Davey, che si attestano come terzo partito a Westminster con 71 deputati.

Vale la pena guardare anche le percentuali prese, che non vanno di pari passo con il numero di seggi considerando il sistema elettorale maggioritario secco: i laburisti primi con circa il 34 per cento, i conservatori calano di circa 20 punti, fermandosi a poco meno del 24 per cento. Una performance molto negativa, ma meno peggio delle previsioni. Il terzo partito per voti è stato Reform Uk con oltre il 14 per cento: più dietro i liberal democratici con il 12 per cento e i verdi con il 7.

I laburisti di Keir Starmer

«Il cambiamento inizia ora», ha detto Stamer che ha parlato di «rinnovamento nazionale». Si è dimostrato l’uomo giusto al momento giusto. O meglio, visto il momento talmente giusto – tra le gravi crisi dei conservatori e degli indipendentisti scozzesi – sembra sia bastato essere un leader normale per regalare la vittoria al Labour.

Ad ogni modo il merito del 61enne ex procuratore è stato di aver dato un indirizzo diverso al partito, dopo l’esperienza corbynista, e di essere riuscito a nascondere sotto al tappeto le contraddizioni ancora presenti all’interno dei laburisti. Gli stessi contrasti che, per esempio, il conflitto a Gaza ha rischiato di far emergere anche alle urne, con il voto della comunità islamica che non ha premiato i laburisti.

Il risultato di Islington North, seggio di Jeremy Corbyn dal 1983 e in cui si è candidato anche quest’anno da indipendente, dopo la sospensione dal Labour, è significativo: il partito di Starmer non è riuscito a strapparlo, con l’ex leader che darà filo da torcere al suo vecchio partito. E poi bisogna considerare il numero complessivo di voti raccolti dai laburisti di Starmer, poco superiore a quelli presi dall’allora partito di Corbyn nel 2019, e inferiori al 2017.

Ma il centrismo su cui virare, la via moderata da intraprendere con coraggio, Starmer erede di Tony Blair (anche se non ha superato i numeri della sua maggioranza nel 1997), sulla carta sono comunque tutte spiegazioni possibili, utili soprattutto fuori dai confini del Regno Unito per chi invidia la vittoria di un partito socialista riformista e vorrebbe replicare tale scenario tra le proprie mura.

In realtà, più semplicemente, Starmer sembra aver sfruttato soprattutto le divisioni della destra britannica, con Reform Uk che ha drenato voti ai Tories, e il tracollo dello Scottish national party, che come i conservatori inglesi è stato dilaniato da troppi scandali e troppo potere. In Scozia, infatti, i laburisti sono cresciuti di diversi punti percentuali, così come hanno guadagnato punti nel Nord e nelle Midlands, regioni decisive cinque anni fa per il successo di Boris Johnson.

La disfatta conservatrice

I Tories, dal canto loro, avevano alzato bandiera bianca ancor prima di andare a votare. Sunak, che comunque è riuscito a mantenere il suo seggio, sarà ricordato come il premier e il leader di partito che ha condotto i conservatori alla peggiore sconfitta di sempre. Non che sia tutta colpa sua, ma le ricette del premier non sono bastate a interrompere un declino iniziato anni fa e diventato inarrestabile dopo l’allontanamento di Johnson.

Tanti gli esponenti di peso o i ministri che hanno perso il proprio posto: Jacob Rees-Mogg, Penny Mordaunt, Grant Shapps, Liz Truss, Steve Baker. A reggere, invece, sono stati Priti Patel, Jeremy Hunt, Tom Tugendhat, James Cleverly, Kami Badenoch e Suella Braverman. Tra di loro, con ogni probabilità, emergerà la leadership futura.

Ma oltre alla ‘supermaggioranza’ laburista, i Tories ora devono fare i conti con Farage e capire come non far deflagrare del tutto quel che rimane del partito, se virando più a destra per contrastare l’avanzata di Reform ma rischiando di perdere voti a favore dei Libdem, o il contrario. Stretto tra martello e incudine, spetterà probabilmente al prossimo leader Tory indicare una rotta. E pregare.

L’exploit di Farage

Chi non prega, al massimo ringrazia, è proprio Nigel Farage. C’è da scommetterci che mentre i risultati dai diversi seggi venivano certificati, il leader di Reform abbia festeggiato con una buona pinta di birra. O forse più di una. I seggi in realtà non sono stati 13, come gli exit poll indicavano, ma solo quattro. Ma in un mese di campagna elettorale è riuscito a convincere gli elettori più delusi, dando un’alternativa a chi guarda a destra: che in fondo era tutto ciò che i vecchi sostenitori conservatori chiedevano.

Intransigenza contro l’immigrazione, proposte spot per tagliare le tasse e passi indietro sulle politiche green e sui diritti civili, tanto è bastato al partito di Farage per raccogliere tra provocazioni e polemiche più di quattro milioni di voti, in quello che è stato già definito un «sisma politico». Le polemiche per i candidati e i militanti razzisti e omofobi non hanno fermato l’ondata di voti per Reform.

«La rivolta contro l’establishment è in corso», è stato il primo commento di Farage nella notte tra giovedì e venerdì. Lo stesso Farage - con cui si è complimentato il suo amico Donald Trump - ha vinto il seggio di Clacton e dopo sette tentativi falliti è riuscito a entrare a Westminster. Insieme a lui anche l’ex Tory Lee Anderson e il presidente Richard Tice.

L’avanzata Libdem

Come detto, però, i conservatori hanno perso voti e seggi non solo a destra, ma anche al centro. I Libdem, infatti, ne hanno beneficiato particolarmente: tanto da raccogliere oltre 70 seggi, un successo storico. Il leader Ed Davey, che ha improntato la campagna elettorale sui suoi video al limite tra il divertente e l’imbarazzante, come quello in cui fa bungee jumping, è riuscito a portare entusiasmo per una forza politica poco protagonista negli ultimi anni. Anche i liberaldemocratici hanno beneficiato delle divisioni a destra e ora avranno la voce necessaria in parlamento per portare le proprie battaglie.

Il tracollo indipendentista scozzese

A lasciare sul campo molti seggi sono stati gli indipendentisti scozzesi. Per bocca della loro ex leader, oltre che ex premier scozzese, Nicola Sturgeon, la serata è stata amara. Le speranze erano di tenere almeno una ventina di seggi. Ne hanno mantenuti neanche la metà, otto, dai 48 del 2019. Dopo il passo indietro di Sturgeon, a causa di stanchezza mista a scandali finanziari, per lo Scottish national party è stato un declino costante.

Le dimissioni di Humza Yousaf, la salita al potere di John Swinney non sono serviti a serrare le fila. Anche in Scozia sembra essere finito un ciclo, per colpa sia di pressioni interne - il logoramento dell’Snp per inchieste varie - sia ‘esterne’, cioè la difficoltà a dare prospettiva alla battaglia indipendentista a causa dell’ostracismo di Londra. Una prospettiva che anche con Starmer a Downing Street non cambierà.

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