«Vorrei che le persone capissero che i seggi elettorali non sono zone militarizzate. Potete sentirvi al sicuro se andate lì con la vostra famiglia, con i vostri figli, e partecipate alla democrazia», ha detto il sovrintendente della contea di Maricopa, in Arizona, nel disperato tentativo di rassicurare gli elettori che ai seggi hanno trovato filo spinato, droni di sorveglianza, tiratori sui tetti, telecamere onnipresenti, cani per fiutare gli esplosivi, metal detector, poliziotti in assetto anti sommossa, vetri antiproiettile, riflettori di sicurezza, mezzi blindati.

A questo repubblicano di nome Bill Gates è stata diagnosticata la sindrome da disordine post traumatico dopo le minacce di morte che ha ricevuto nel 2020, quando la contea che raccoglie il 60 per cento degli elettori dell’Arizona si è trovata al centro della tempesta post elettorale scatenata da Donald Trump, che alimentava dubbi sulla regolarità del voto, esigeva riconteggi, evocava complotti.

Le azioni legali non hanno portato a nulla ma hanno fatto salire drammaticamente i livelli d’allarme nelle contee in bilico, che da settimane sono presidiate da eserciti di burocrati che osservano e controllori armati che sorvegliano.

I circa 80 milioni di elettori che si sono presentati ieri alle urne – dopo che quasi altrettanti avevano già votato di persona oppure via posta – hanno visto l’allegra macchina della partecipazione democratica trasformata in un vasto arcipelago di fortezze militarizzate e strutture di massima sicurezza sotto la sorveglianza armata. In Nevada, Oregon e nello stato di Washington è stata mobilitata la guardia nazionale a scopo precauzionale per contenere eventuali disordini.

Nella contea di Cambria, nella decisiva Pennsylvania, ci sono stati momenti di tensione quando le macchine per la registrazione dei voti sono andate momentaneamente in panne, creando lunghe code di elettori e generando speculazioni complottiste sui social. Nei giorni scorsi ci sono state ondate di disinformazione dopo alcuni problemi tecnici riportati in Texas e Arkansas, subito raccontate dagli account trumpisti come una storia di schede a favore del candidato repubblicano tramutate in voti per Kamala Harris.

Nella contestata contea dell’Arizona gli impiegati del seggio sono stati portati dentro e fuori dal luogo di lavoro con autobus condotti attraverso percorsi speciali delimitati da guardrail di cemento.

Il centro dove avviene lo scrutinio è pieno di telecamere che trasmettono quello che succede in streaming, per assicurare la massima trasparenza nelle operazioni. Sono scene che si attagliano a una fragile democrazia che muove i suoi primi passi, non alla potenza democratica più importante del pianeta.

Minacce esterne

Ad aumentare la percezione di un processo pieno di falle ed esposto a condizionamenti ci hanno pensato le agenzie di intelligence. La direzione dell’Intelligence nazionale, l’agenzia per la cybersicurezza e l’Fbi hanno pubblicato una nota congiunta in cui denunciano il tentativo di agenti stranieri di influenzare le elezioni. La Russia è naturalmente il capofila dell’operazione. Avversari esterni «stanno conducendo nuove operazioni di influenza per minare la fiducia del pubblico nell’integrità delle elezioni americane e alimentare le divisioni fra gli americani», spiega la nota.

È il culmine di una serie di segnali lanciati in modo sempre più allarmato negli ultimi tempi. Due settimane fa l’intelligence ha emesso un avvertimento sulla possibilità che si scatenino episodi di violenza dopo il voto e soltanto negli ultimi dieci giorni sono state diramate tre note sul tentativi del Cremlino di influenzare il dibattito elettorale.

Anche le attività dell’Iran rimangono al centro delle preoccupazioni degli apparati. Teheran rimane una «minaccia significativa» nelle operazioni di influenza e i funzionari hanno ripetuto che le cyberspie del regime degli ayatollah sono sempre al lavoro per danneggiare la campagna di Donald Trump, l’uomo a cui hanno giurato vendetta per l’uccisione del generale Qasem Soleimani nel 2020.

I tempi dello spoglio

Le opportunità per disinformare e seminare dubbi sono moltiplicate dai tempi lunghi del conteggio dei voti, procedura resa ancora più farraginosa dalle imponenti misure di sicurezza. Quella che un tempo era la notte elettorale ora si svolge – nel migliore dei casi – nell’arco di diversi giorni. I sette stati in bilico hanno procedure e quindi tempi di scrutinio diversi fra loro. In Georgia si contano i voti celermente, ma se i numeri dei candidati sono molto vicini si attivano procedure di ricontrollo manuale molto laboriose. Nel 2020 ci sono voluti 16 giorni per dichiarare la vittoria di Biden.

Prospettiva simile anche per la North Carolina, che però ha modificato leggermente le regole dello scrutinio del voto postale per accelerare i conti. Nel 2020 ci sono voluti 10 giorni dall’Election Day per certificare il voto.

La Pennsylvania è strutturalmente lenta nel conteggio, perché le schede, nemmeno quelle già depositate, possono essere conteggiate prima della chiusura delle urne, ma alcuni accorgimenti – tipo l’abolizione della pausa notturna, si continuerà a spogliare a oltranza – dovrebbero rendere la procedura più rapida. Ci sono voluti 4 giorni nel 2020.

Il Michigan è stato relativamente rapido nel 2020 (è stato assegnato a Biden poco più di 24 ore dopo la chiusura dei seggi) e grazie a nuove regole dovrebbe essere ancora più veloce, margini permettendo, e ancora più rapido dovrebbe essere l’ultimo stato che chiude il pacchetto del Midwest, il Wisconsin. Potrebbero volerci diversi giorni, invece, per avere indicazioni chiare sui risultati in Arizona, stati contesi e lenti nello spoglio.

© Riproduzione riservata