Mentre la campagna elettorale americana è entrata nel vivo e Kamala Harris e Donald Trump si scambiano attacchi sempre più diretti e personali, il resto del mondo e le crisi internazionali appaiono lontani dai temi trattati dai due candidati.

A cercare di lasciare un suo segno è invece il presidente uscente Joe Biden che con un comunicato diramato il 12 agosto, sottoscritto insieme ai governi di Francia, Germania, Italia e Regno Unito ha chiesto al governo iraniano di non procedere con un attacco nei confronti dello stato di Israele in risposta all’uccisione del numero due di Hezbollah, Fuad Shukr, e del leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, entrambe avvenute a fine luglio, quest’ultima nella capitale Teheran.

Un comunicato che è apparso, anche nei toni, poco incisivo, quasi rassegnato alla scarsa influenza che l’amministrazione presidenziale ha e avrà in questi ultimi mesi che la separano dalle presidenziali di novembre.

La “pace” di Ferragosto

I principali sforzi diplomatici, americani e non solo, al momento sono concentrati sul tentativo di ottenere qualche risultato dal vertice di domani. Ma al momento sono più i dubbi che le certezze. L’Iran, come prevedibile, ha respinto l’appello alla moderazione degli Usa e dei suoi alleati europei. E ha fatto filtrare, attraverso tra alti funzionari iraniani citati da Reuters, che solo un accordo per un cessate il fuoco a Gaza potrebbe convincere Teheran a non attaccare Israele. 

Ma non è ancora chiaro se Hamas parteciperà ai colloqui né se lo farà il governo israeliano. Se queste sono le premesse è più che lecito dubitare che si possa arrivare a un accordo. Non fosse altro perché dopo la morte di Haniyeh, la leadership politica dell'organizzazione terroristica è nelle mani di Yahya Sinwar, considerato la mente dell’attacco del 7 ottobre. Un fatto che, sicuramente, non spinge Tel Aviv ad avviare trattative. 

In questo scenario l’amministrazione americana non può fare molto. Anche perché il viaggio di Netanyahu a Washington ha reso evidenti due elementi: il raffreddamento dei rapporti con Biden e di conseguenza con Harris, e la vicinanza a Trump. È assai probabile che il premier israeliano voglia lasciare la situazione congelata nella speranza che il tycoon torni alla Casa Bianca.

Il fronte ucraino

Ma a impensierire la Casa Bianca, e di conseguenza l’attuale vicepresidente e candidata democratica Harris, è anche l’andamento della guerra in Ucraina dove l’invasione del territorio russo da parte dell’esercito di Kiev sembra aver prodotto un nuovo cambio di scenario in un conflitto che appare sempre più lontano da una conclusione rapida.
Eppure, nonostante questo, a dominare il dibattito politico americano sono i temi dell’immigrazione e dell’economia. Un recente sondaggio del Financial Times ha evidenziato che se fino a oggi i repubblicani erano riuscita a sfruttare a proprio favore gli argomenti economici trasformando il termine “Bidenomics”, nato nell’entourage di Biden, in uno sfottò usato per attaccare le scelte del presidente, ora Harris ha ribaltato la narrazione.

L’unico argomento che lambisce la geopolitica sembra essere quello dei rapporti del candidato vicepresidente dem Tim Walz con la Cina. Ma anche in questo caso a prevalere è la propaganda elettorale.

L’anniversario

Nel frattempo la memoria di molti va all’agosto di tre anni fa e alle immagini del ritiro precipitoso e confusionario degli americani dall’Afghanistan. Immagini che, anche se sono sparite rapidamente dai quotidiani e dall’elenco delle cose che interessavano l’opinione pubblica Usa, hanno comunque macchiato in modo indelebile l’immagine di Biden. E non è un caso che il suo indice di popolarità, da allora, sia sempre rimasto intorno al 40 per cento.

Questo testimonia che, anche se oggi elettori e candidati non sembrano preoccuparsi molto di ciò che accade nel resto del mondo, l’aggravarsi di una delle crisi internazionali in corso potrebbe comunque danneggiare il ticket dem guidato da Harris, che verrebbe visto, a torto o a ragione, come corresponsabile di quanto accaduto.

C’è poi un tema non strettamente internazionale che però interessa gli americani e riguarda la gestione dei flussi migratori provenienti dal confine messicano. Secondo un’analisi pubblicata dal magazine Politico, la linea finora tenuta, con minimizzazioni e accuse al «razzismo trumpiano», non è più sostenibile. Servirebbe un cambio di paradigma e il modello potrebbe essere quello utilizzato da Keir Starmer, che lo ha portato a vincere le elezioni nel Regno Unito: una linea più morbida nei confronti dei migranti, ma durezza assoluta nei confronti dei trafficanti di esseri umani.

Solo in questo modo, scrivono gli analisti, si possono evitare gli errori di questi anni che hanno portato a una crisi di credibilità dei democratici sul tema. Insomma c’è un confine che potrebbe avere un effetto tutt’altro che irrilevante nella corsa verso la Casa Bianca. Ma il mondo in fiamme, per ora, resta una nota a piè di pagina.

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