- I mullah iraniani impiccano chi manifesta alle lunghe braccia delle gru, perché il messaggio arrivi lontano. Un’ossessione simile contagia anche il potere in Afghanistan, ma il suo racconto è relegato alla periferia della cronaca.
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Una galleria clandestina di foto e filmati approda fortunosamente oltre confine da almeno dodici diverse province, da Herat, passando per Ghor, Paktika, Takhar. Insieme, i filmati disegnano una mappa punitiva medievale.
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In Afghanistan la battaglia continua, a bassa intensità, con pietre, corde, bastoni. Afghani senza stranieri ma invasi da altri afghani. Si avvicina il bivio della guerra civile, Che già dilaga vistosamente anche in Iran.
I mullah iraniani usano gru con lunghi bracci per impiccare chi manifesta contro il regime. Quei corpi inerti, ridotti a fantocci, issati in alto devono spargere lontano il loro ammonimento.
È una scenografia cupa collaudata da anni. Come aveva un suono cupo il messaggio di Khomeini da poco arrivato al potere nel settembre 1979 a Oriana Fallaci.
«Le donne che hanno fatto la rivoluzione erano e sono donne con la veste islamica, non donne eleganti e truccate come lei che se ne vanno in giro tutte scoperte trascinandosi dietro un codazzo di uomini. Le civette che si truccano ed escono per strada mostrando il collo, i capelli, le forme, non hanno combattuto lo scià. Non hanno mai fatto nulla di buono quelle. Non sanno mai rendersi utili: né socialmente, né politicamente, né professionalmente. E questo perché, scoprendosi, distraggono gli uomini e li turbano. Poi distraggono e turbano anche le altre donne».
Oggi, dopo oltre quarant’anni, i mullah parlano di guerra contro Dio davanti alle ragazze che si tolgono il velo e si tagliano i capelli mentre i loro compagni le affiancano, intrepidi.
Nella periferia della cronaca
Tutto il mondo vede questa ribellione da mesi. E una ossessione simile contagia il potere in Afghanistan, relegato però alla periferia della cronaca.
Solo la chiusura dei licei o delle università per le ragazze risveglia brevemente l’occidente. Una galleria clandestina di foto e filmati, annotati con parole scritte o con le voci dei protagonisti, datati a partire dall’8 settembre 2021 fino a oggi, approdano fortunosamente oltre confine da almeno dodici diverse province, da Herat, passando per Ghor, Paktika, Takhar.
Insieme disegnano una mappa punitiva medioevale. Dove niente richiama un’idea di giustizia, di principi punitivi semplici e chiari, ma al contrario dove appare brutalità, accanimento, arbitrio personale.
Questo meccanismo utilizza vernice nera per nascondere il volto femminile impresso su vetrine e manifesti, bastoni di legno e tubi di gomma per le frustate, corde per appendere i prigionieri per i piedi, mucchi di sassi per le lapidazioni, un barattolo di conserva vuoto su cui appoggiare la mano che verrà amputata con un’ascia, o solo un’arma affilata per la decapitazione.
Per la giustizia talebana può bastare anche la semplice acqua gelata di un fiume. Come in un piccolo villaggio del Badakhshan, alcuni mesi dopo la caduta di Kabul nell’estate del 2021, dove le direttive centrali arrivavano in ritardo ma in compenso erano interpretate con approssimazione.
Chi non era andato alla moschea per le cinque preghiere quotidiane veniva punito con una multa in denaro, oppure doveva fornire un contributo fisico, riparando le strade dissestate.
Se il colpevole non aveva né soldi né braccia forti allora doveva entrare nel fiume con l’acqua gelata che scendeva da montagne alte seimila metri. Il bagno forzato veniva misurato con l’andata e il ritorno tra le due rive.
L’elenco dei fotogrammi rubati parte dal semplice banditismo, dove si vede un signore vestito decorosamente, remissivo, proprietario di una motocicletta, in un scenario spoglio, di terra e parete rocciosa, che ricorda quella dei Buddha di Bamyan a suo tempo distrutti con l’esplosivo dai talebani.
L’uomo scambia alcune battute con un personaggio armato, dal kalashnikov partono due colpi, l’uomo è a terra, non ci sono stati sprechi eccessivi di munizioni. La motocicletta ha un nuovo proprietario.
Sorte diversa per uno sventurato afflitto da braccia cariche di tatuaggi, disegnati per compiacere le mode contemporanee del mondo occidentale.
In un video viene malmenato brutalmente da tre figuri rabbiosi, a volto scoperto. Con i bastoni, come un maestro sulla lavagna, mostrano i punti dove la pelle è disegnata.
Non si capisce fino a che punto continueranno a colpire e dove il Corano abbia indicato la via per la giusta punizione. I giustizieri però non hanno la lunga divisa bianca dei “dottori spirituali” dipendenti dal ministero per la difesa della virtù e la prevenzione del vizio, delegato al rispetto della legge islamica.
Questi educatori, anche se ufficialmente si definiscono più autorevoli di soldati e poliziotti, rimangono invisibili qui e in tutte le altre immagini catturate nelle varie province.
La galleria dei soprusi
La figura di una donna tutta avvolta di nero, con il volto praticamente invisibile, cerca disperatamente, con le urla e con i gesti, di fermare gli aguzzini che si accaniscono contro suo figlio. Lo difende con una energia quasi animalesca.
Ma i giustizieri non si impietosiscono e la fanno rimbalzare con violenza, come fosse solo un abito svuotato.
Mentre in un’altra ripresa, in un’altra provincia, un uomo viene malmenato perché oltre alle sue colpe non udibili nel clamore della tortura lui parla solo in dari, una delle due lingue usate in Afghanistan, e non in pastu, la lingua dei talebani.
La galleria dei soprusi, o delle vendette, mostra due uomini a terra, la schiena di uno contro quella dell’altro, legati insieme, doppiamente incapaci di reagire, mentre i giustizieri urlano e colpiscono, con bastoni o il calcio del fucile.
E il rituale si ripete in un altro luogo e momento contro un uomo con le braccia appese e legate, in modo da formare una specie di croce.
Di volta in volta chi organizza la punizione si presenta a volto scoperto, oppure nascosto da uno straccio, da una sciarpa, come per proteggersi durante una tempesta di sabbia. Ma attorno non c’è un filo di vento.
Non appaiono i guardiani con l’abito bianco che proteggono la virtù nemmeno dentro i filmati più brutali, se non osceni, che mostrano volti frantumati, lapidazioni e tagli della mano.
Il carnefice tiene una testa ancora gocciolante di sangue come fosse un pacco qualunque. E in un altro episodio il torturatore tiene per un dito la mano appena staccata.
Ha già disinfettato a suo modo il braccio amputato dentro un secchio con l’acqua fumante, per avvolgerlo poi con un ampio pezzo di stoffa. Macelleria di uomini su altri esseri umani.
Davanti al volto devastato di una donna il mio interprete, un afgano esule adulto, si alza e dice che non riesce più a tradurre.
Silenzio intorno
In queste riprese appare contemporaneamente, come un contorno immancabile, la folla passiva di uomini, ma anche di bambini in alcuni casi, soggiogati dal rituale violento. Gli spettatori più zelanti, anche loro collaborazionisti immancabili di ogni carneficina, invece gridano e incitano i carnefici, sperando forse in qualche tipo di ricompensa.
Tutta la letteratura sugli afghani intrepidi che si ribellavano ai governanti malvagi e che hanno sempre sconfitto gli invasori stranieri sembra liquefarsi. In questi immagini non si vede la reazione popolare, dilagante, che da mesi sconvolge e paralizza l’Iran.
Buona parte dell’emirato afghano di oggi è composto da studenti passati attraverso le scuole coraniche. Haqqania è la più famosa, la più grande, la più antica, e viene considerata l’università dei Talebani.
Sorge in Pakistan, ad Hakkora Khatak, dove le acque del fiume Kabul si mescolano a quelle dell’Indo. Ci sono immagini dove attorno al predicatore si vedono anche 1.500 studenti, tutti vestititi di bianco, stretti uno all’altro, tra libri e banchi.
Gli scolari cominciano da piccoli, spesso arrivano da famiglie molto povere. Un ambiente paragonabile in apparenza a quello creato tra le montagne himalayane nei monasteri buddisti.
Qui il responsabile della scuola, il rettore Sami Ul Haq, verso la fine degli anni Novanta raccontava che aveva sospeso le lezioni e mandato i suoi studenti oltre confine a sostenere i talebani, arrivando con altre madras a creare un corpo di spedizione di circa ottomila unità.
Qui gli studenti afghani avevano ogni anno 400 posti riservati per loro. E gli studenti dell’Asia centrale erano accolti senza passaporto. Il rettore era un estimatore del mullah Omar e lamentava che i potenti servizi segreti pachistani non avessero mai sostenuto la sua scuola.
Dopo l’11 settembre 2001 molti cronisti arrivavano da lui sperando in un itinerario privilegiato per arrivare dai Talebani a Kandahar o a Kabul prima della invasione americana.
È stato ucciso quattro anni fa dentro la sua casa, in un attacco sanguinario, all’arma bianca, senza rivendicazione. Ma ha lasciato una eredità politica concreta.
Da Akkora Khatak è passata una buona parte del gruppo che oggi occupa le stanze del potere in Afghanistan. Le occupa, senza però riuscire a governare. Da lì è passato l’emiro Hibatullah Akhundzada, guida spirituale dei Talebani, formalmente numero uno del nuovo potere, che come il mullah Omar a suo tempo ha scelto il ruolo di leader invisibile.
Già nel primo governo talebano tra il 1996 e il 2001 lui era favorevole al taglio della mano per i ladri e alla lapidazione per le adultere.
Nella quotidianità afghana di oggi i principi punitivi e i metodi per applicarli non mutano. È passato da questo grande edificio, forse dire da questi banchi è una forzatura, l’attuale ministro degli interni Haqqani, l’uomo forte, sanguinario, anche lui ostile a mostrare le sue foto e ad altre forme di identificazione.
Affiancato da altri ex studenti: il ministro degli Esteri, quello della Giustizia, della Istruzione superiore, delle Acque e dell’energia, da vari governatori e alti funzionari. E lo stesso contributo di collaboratori Sami Ul Haq aveva fornito al mullah Omar.
Atavica prepotenza
I riti di forza, di prepotenza ostentata, tuttavia non sono una caratteristica esclusiva dei Talebani. La guerra in Afghanistan va avanti da quaranta anni: contro i sovietici, tra gli stessi mujaheddin che li hanno sconfitti, poi contro i talebani, contro gli americani e la alleanza occidentale.
Era naturale in passato vedere bambini con uno spago e due barattoli in mano giocare al posto di blocco sulla strada e chiedere il pedaggio. Così facevano, con un’arma in mano, i loro fratelli più grandi o i loro cugini nella vita reale.
A Kabul, dentro un albergo spopolato, un ospite impugnò il coltello contro il cameriere che non gli portava un bicchiere di acqua del paradiso, come lì chiamano il succo di melograno, che aveva visto passare poco prima. Incurante che nella dispensa non fosse rimasto un solo frutto da spremere.
Dopo la prima ritirata dei Talebani a fine 2001 un bidello-ragazzino metteva ordine davanti a una scuola frustando con un tubo di gomma gli scolari, esattamente come facevano fino a qualche giorno prima i custodi islamici.
Nel caos di quella ritirata un cosiddetto mujaheddin , ingaggiato da una organizzazione umanitaria giapponese, pretendeva duecento dollari supplementari con il kalashnikov in mano autoproclamandosi seguace del leggendario comandante Massoud. In un addestramento perenne alla prepotenza.
Ancora prima, i guerriglieri afghani quando catturavano i soldati russi a volte li scuoiavano. Poi, con la carne scoperta, li infilavano in buche ricoprendoli con sabbia caldissima.
Anche loro praticavano punizioni barbare, antiche, a costo zero. Il generale Rashid Dostum occupa la scena afghana da oltre quarant’anni, è uno dei signori della guerra più longevi e più noti, per la sua brutalità piuttosto che per la strategia, amico di tutti e di nessuno, controllore del passo del Salang, cioè della strada che porta al nord, ai giacimenti di gas afghano che si trovano nelle sue province, al confine e al commercio con l’Asia centrale. Orgoglioso del passaggio di Gengis Khan da quelle parti.
Chi era entrato nel suo palazzo-fortilizio era generalmente un ospite con diritto di uscita limitato. Una delle sue guardie armate raccontava che un soldato sorpreso a rubare era stato legato a un carro armato e trascinato in cerchio per il cortile dentro la fortezza fino a quando non era rimasto più nulla del corpo. Trascinarlo con una jeep non bastava.
Quando i Talebani avevano provato a conquistare per la prima volta Mazar, alla fine del secolo scorso, il generale ne aveva ammassati circa duemila dentro i container.
Aveva chiuso i portelloni e li aveva lasciati in quelle gabbie di metallo, senza aria, sotto il sole infuocato, fino a quando anche l’ultima voce all’interno si era spenta.
Le sue milizie feroci hanno formato la guardia presidenziale dell’ultimo presidente comunista del paese. Era un bevitore vorace, ma al momento politicamente opportuno si è trasformato in musulmano devoto e sobrio.
È stato ospite a Washington nonostante i prigionieri soffocati nei container e con la Turchia mantiene un rapporto privilegiato, anche di affari, fino ad oggi.
Il suo curriculum da brigante, più che da patriota, non gli ha impedito di diventare vicepresidente della repubblica afghana nel 2018, quando ancora il potere a Kabul era sostenuto dal governo americano e dai suoi soldati.
E in generale, nelle varie stagioni politiche, gli attentati in Afghanistan sono stati compiuti non solo contro ministeri e caserme ma anche davanti ai forni per il pane, con la gente in fila, contro le ambulanze che arrivavano dopo le esplosioni, e anche nelle moschee, spesso nel giorno di festa del venerdì, quando la gente è più numerosa, come a Herat nella scorsa estate.
O infilando una bomba dentro il turbante, copricapo religioso che incute soggezione, che tradizionalmente non veniva ispezionato, che godeva di una inviolabilità simile a quella femminile del burqa.
La guerra civile
Al Haji Khaksar a vent’anni era entrato alla scuola coranica, contemporaneamente all’arrivo dell’Armata rossa in terra afghana. Alla caduta del regime comunista si era trasformato in uomo d’affari, come capita frequentemente in questo paese dove il bazar è una istituzione con mille facce e mille braccia.
Nel primo governo talebano del 1996 diventava responsabile dei servizi segreti e poi viceministro degli interni. A fine 2001 trattava la resa prima che gli occidentali entrassero a Kabul, evitando una nuova violenta battaglia e ancora morti.
Uno dei suoi uomini al corpo di guardia, più simile a un monaco che a un soldato, diceva: non ci sono battaglie vinte e battaglie perse, conta solo quando finiscono.
Per ora in Afghanistan la battaglia continua, a bassa intensità, con pietre, corde, bastoni. Afghani senza stranieri ma invasi da altri afghani. Si avvicina il bivio della guerra civile. Che già dilaga vistosamente anche in Iran.
In un parallelismo tra l’islam sunnita, tradizionalmente più diffuso nel mondo e più moderato, ma oggi ideologicamente più rozzo nella versione afghana, e l’islam sciita militante di Teheran, coltivato nella scuola teologica di Qom.
Il mondo dei mullah conservatori, ossessionati dalla figura femminile, alla fine del secolo scorso avevano visto emergere la figura liberale del presidente Khatami.
Era scoppiata una stagione di speranze, un’autentica primavera. Teheran cercava una apertura anche con gli americani. Ma la primavera finì dopo pochi anni. Un giorno Khatami, non più presidente, venne in Italia al premio Terzani.
Due signore gli andarono incontro per stringergli la mano e lui non si ritrasse. Un professore universitario filmò la scena che arrivò poi velocemente a Teheran. Sollevando l’indignazione rumorosa degli integralisti. Estimatori di Allah, ossessionati dalle donne, forse veri emissari delle forze maligne.
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