Come è naturale che sia, ci risvegliamo ormai ogni giorno con un nuovo sondaggio sulla corsa presidenziale negli Usa. L’ultimo, del New York Times e del Siena College, dà una situazione di virtuale parità su scala nazionale e nei sette swing states – Wisconsin, Michigan, Pennsylvania, Nevada, Arizona, Georgia e North Carolina – che saranno decisivi in novembre. I pochissimi punti a vantaggio dell’uno o dell’altro candidato stanno infatti dentro margini di errore circoscritti a non superiori tre punti percentuali.

Cosa ci dice tutto ciò, della campagna elettorale e più in generale del contesto politico statunitense? E in che modo questo stallo, dove né Harris né Trump riesce a prendere il largo, condizionerà il loro cruciale dibattito di martedì notte?

La nebulosa dei sondaggi

Entrambi i candidati possono leggere positivamente i dati che arrivano dai sondaggi. In poche settimane, Harris è riuscita a riaprire una contesa il cui esito, con Biden ancora in corsa, appariva scontato. Rimettendo in gioco gli stati del sud-ovest (Nevada e Arizona) e del sud (Georgia e North Carolina), dispone ora di percorsi diversi per arrivare ai 270 grandi elettori necessari per vincere.

Può, in teoria, perdere anche pezzi del bluewall del Midwest: Georgia e North Carolina (16 grandi elettori entrambe) compenserebbero Michigan o Wisconsin (15 e 10); aggiungendo a uno dei due il Nevada (6) si bilancerebbe una sconfitta in Pennsylvania (19); assieme, Arizona (11) e Nevada potrebbero sostituire Michigan; e tante altre combinazioni ancora. Ciò obbliga la controparte a spendere tempo, risorse ed energie sottraendole a quel Midwest dove sarebbero state invece massicciamente dirottate con Biden ancora in corsa. I sondaggi riflettono inoltre uno degli indicatori più positivi per Harris e i democratici: la crescita significativa delle registrazioni elettorali, soprattutto di segmenti della popolazione – giovani e minoranze – delusi da Biden e potenzialmente decisivi, soprattutto in Stati come Georgia o Arizona.

Numeri, questi, a cui vanno aggiunti quelli relativi alla candidata Harris, i cui tassi di popolarità sono di molto aumentati nelle settimane successive all’annuncio della sua candidatura e che oggi si collocano diversi punti sopra quelli di Biden.

Se osserviamo però questi numeri da un’altra visuale, anche Trump ha motivi per rallegrarsene (e per i quali, sia pure di poco, resta favorito). La crescita dei consensi e delle intenzioni di voto verso Harris sembra avere raggiunto un limite fisiologico e nessun significativo rimbalzo vi è stato dopo la convention democratica di Chicago. A dispetto della retorica incendiaria e spesso politicamente scorretta dispiegata sia dall’ex Presidente che dal suo vice J.D. Vance, la sua popolarità non è calata.

Su alcuni temi fondamentali – economia, immigrazione e sicurezza – gli elettori ancora lo preferiscono. Più di tutto, la comparazione con i due precedenti cicli elettorali del 2016 e il 2020 non può che indurlo all’ottimismo.

Su scala nazionale, i democratici debbono avere un vantaggio di almeno 2/3 punti percentuali nel voto popolare per compensare l’handicap di cui soffrono nel collegio elettorale (grazie alla sovra-rappresentanza di cui i repubblicani beneficiano in conseguenza del maggior peso relativo degli Stati poco popolati). Quattro e otto anni fa, inoltre, Trump ebbe alle urne risultati molto migliori di quanto non previsto nei sondaggi e non è affatto detto che un fenomeno simile non sia destinato a ripetersi anche quest’anno.

La polarizzazione del voto

L’unica certezza che questi numeri confermano è, una volta ancora, la radicale polarizzazione politica ed elettorale del paese. Le sue matrici sono plurime e tanti cleavage ci aiutano a misurarla e definirla, su tutti – e molto di più del reddito o della condizione occupazionale – il livello d’istruzione e il luogo di residenza (ovvero la densità abitativa e la frattura tra aree rurali e metropolitane), i due indicatori che maggiormente permettono di anticipare le scelte di voto oggi. È una polarizzazione esemplificata dalla percentuale sempre più alta di voto straight-ticket: l’inclinazione, cioè, a votare per candidati dello stesso partito per tutte le cariche in ballo su quelle infinite lenzuola che sono spesso le schede elettorali statunitensi, con le loro tante caselle da barrare tra elezioni federali, statali e locali. Ed è una polarizzazione che limita grandemente la mobilità di opinioni e voti. Non serve andare ad elezioni lontane nella storia per comprendere la portata e rapidità del cambiamento. Ancora nel 2008, il candidato – John McCain – poi largamente sconfitto alle urne (7 punti nel voto popolare; 365 a 173 nel collegio elettorale) fu avanti nei sondaggi per gran parte di settembre.

La polarizzazione radicale, lo sappiamo, nuoce tanto alla qualità del confronto politico e del discorso pubblico quanto alla capacità di ben governare, soprattutto in un sistema federale e con una complessa dialettica tra esecutivo e legislativo quali sono gli Usa. A chi concorre a una carica elettiva impone più di tutto la necessità di galvanizzare e mobilitare la propria base elettorale, limitando al minimo defezioni letali per le chance di vittoria. Ciò è particolarmente vero per i democratici, in teoria maggioritari nel paese ma anche più difficili da mobilitare vista la loro minor omogeneità politica, ideologica e demografica.

Lo scontro Tv

E questo ci porta al cruciale dibattito di martedì notte. Harris ha meno margini di errore rispetto a Trump. Il profilo del secondo è ben definito e chiaro, dopo otto anni di vita politica e molti di più nell’arena pubblica: il suo bacino di voti è certo, ma non particolarmente espandibile.

La candidata democratica dovrà usare il dibattito per completare il processo forzosamente accelerato di sua definizione, per alimentare (o riaccendere) l’entusiasmo del suo elettorato e per convincere gli indecisi e disillusi democratici a recarsi comunque alle urne.

Dovrà mostrarsi preparata e competente sui temi cruciali, cosa che in passato spesso non gli è riuscita. E dovrà cercare di esporre e finanche magnificare l’impresentabilità istituzionale di un Trump fattosi in queste ultime settimane ancor più radicale ed eversivo.

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