Uno fa il cantante, l’altro il cameriere, un terzo il muratore. Sono stati arrestati dalle autorità statunitensi e poi caricati su un aereo per essere rispediti in Venezuela con l’accusa di essere membri della gang criminale Tren de Aragua. Il video di loro con gli occhi a terra, la divisa bianca e la testa rasata, era stata postata dallo stesso presidente Usa. Ma ora si moltiplicano le testimonianze dei loro familiari: «Ho riconosciuto il mio Arturo, lui era andato negli Usa solo per girare un video musicale»
Lo scorso 16 marzo Nathalí Sánchez stava controllando i suoi social network, quando un video ha catturato la sua attenzione. Nel video, pubblicato sui propri account dal presidente statunitense Donald Trump, si vedono centinaia di uomini deportati su un aereo. Tutti indossano una divisa bianca, hanno la testa rasata e sono costretti a stare seduti a terra con la testa bassa mentre decine di militari li controllano a vista puntandogli i fucili addosso. Nel video si spiega che quelli sono 238 appartenenti alla pericolosissima gang venezuelana Tren de Aragua che si trovavano in territorio statunitense e che sarebbero stati deportati in Salvador, in una prigione di massima sicurezza, dove sono tenuti gli altri narcotrafficanti della banda.
Nathalí guarda quegli uomini con attenzione e, di improvviso, sobbalza. Mette in pausa il video e fa lo zoom sui tatuaggi di un uomo fino a quando non ne è sicura: quello non è un narcotrafficante, è suo marito, Arturo Alejandro Suárez Trejo.
La storia di Arturo
Arturo non si trovava negli Stati Uniti per trafficare droga, ma per girare un video musicale. Arturo infatti è un cantante 33enne ed è padre di una bimba di soli 3 mesi che vive in Cile con la madre Nathalí. «Lui è andato negli Stati Uniti nel settembre scorso per consolidare la sua carriera musicale – assicura la donna – E speravamo di poterci riunire al più presto per poter continuare la nostra vita insieme. L’ultima volta che ho potuto parlare con lui mi ha detto che era stata arrestato durante un controllo migratorio mentre si trovava in Carolina del Nord. Gli stavamo cercando un avvocato e poi di improvviso, lo ritrovo in quel video, trattato come un criminale. E ora mio marito, che è solo un cantante, è detenuto in un carcere pieno di narcotrafficanti in un paese straniero».
Il governo di Donald Trump negli scorsi giorni ha dato molta visibilità all’operazione, assicurando di aver deportato nel Salvador dei pericolosissimi criminali. Suo alleato in quest’operazione è Nayib Bukele, un uomo che soprattutto in America Latina è una star. Da quando è stato eletto presidente del Salvador nel 2019 infatti ha iniziato una vera e propria guerra contro i narcotrafficanti, costruendo una serie di enormi carceri di sicurezza in cui rinchiudere gli uomini delle gang. I metodi usati da Bukele nelle sue carceri e nelle retate sono ferocissimi e le violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno, ma il politico salvadoregno è amatissimo in tutto il continente latinoamericano e anche dall’amministrazione Trump, che ha deciso di affidare alle sue carceri gli oltre 200 uomini deportati il 16 marzo.
Peccato però che da giorni ormai i giornali venezuelani continuino a riportare interviste di madri, padri, mogli o sorelle che testimoniano di aver riconosciuto fra quegli uomini un loro caro che, in nessun momento, ha fatto parte del Tren de Aragua. Si moltiplicano, sia nei media che nelle reti sociali, le denunce e sono tutte molte simili a quella di Nathalí Sánchez e tutte hanno un particolare in comune: i tatuaggi degli uomini deportati che sono stati utilizzati come “prova” dall’amministrazione Trump per determinare la loro appartenenza alla gang criminale. Come hanno testimoniato al Miami Herald i familiari di Mervin José Yamarte Fernández e Henry Javier Vargas Lugo, entrambi migranti venezuelani trentenni che lavoravano (rispettivamente come cameriere e muratore) negli Stati Uniti per aiutare la propria famiglia in Venezuela e che sono stati deportati nel Salvador solo ed esclusivamente per i loro tatuaggi. I due giovani sono incensurati e sono stati bloccati durante i controlli perché i loro tatuaggi avevano insospettito gli agenti delle forze dell’ordine.
Disegni comuni
Il Dipartimento di Sicurezza del Texas ha diffuso un documento che aiuta a identificare i tatuaggi che potrebbero determinare l’appartenenza al Tren de Aragua. Il problema però è che si tratta di disegni molto comuni, come stelle, armi da fuoco, granate, rose e tigri o giaguari. Ma l’avere uno di questi tatuaggi, ovviamente, non può essere usata come unica prova per accusare una persona di essere un narcotrafficante. Come ha riportato il giornale venezuelano El Estímulo, gli avvocati delle famiglie che hanno denunciato la deportazione nel Salvador dei loro familiari, lo scorso 24 marzo hanno presentato un “habeas corpus” (principio processuale che permette di verificare le condizioni del detenuto e le motivazioni della sua detenzione) per 30 uomini ingiustamente accusati di appartenere al Tren de Aragua. «Sono persone che sono emigrate dal Venezuela e che non avevano nessun tipo di antecedente criminale. Non ci sono prove che questi uomini appartengano a una gang criminale», hanno dichiarato i due avvocati Jaime Ortega e Salvador Ríos.
L’amministrazione Trump, secondo i documenti pubblicati da Associated Press, paga al governo Bukele circa 20 mila dollari all’anno per ogni detenuto incarcerato nelle mega-prigioni salvadoregne. Un accordo che Bukele ha molto celebrato definendolo sui suoi account: «L’accordo più straordinario del mondo, per il governo statunitense questa tariffa è bassa, ma per noi sono molti soldi». Il presidente salvadoregno è riuscito in pochi anni a trasformare uno dei paesi più pericolosi dell’intero continente, in uno relativamente sicuro e per questo in tutta l’America Latina si parla di “Modello Bukele”.
Incarcerazioni di massa
Un modello però molto criticato da chi si occupa di diritti umani: grazie alle mega-retate di Bukele infatti oggi il Salvador ha attualmente il più alto tasso di incarcerazione al mondo, con 1.086 persone detenute ogni 100 mila abitanti. E fra questi, centinaia sono persone innocenti che sono stati arrestati senza nessuna prova. Un metodo che sembra essere stato adottato anche dall’amministrazione Trump per le deportazioni dei cittadini venezuelani, finiti in prigione in Salvador per un tatuaggio. Come testimonia Michel Gonzalés, sorella di Anyelo Sarabia, 19enne incensurato detenuto lo scorso 31 gennaio durante un regolare controllo migratorio: «Mio fratello è stato deportato perché ha tatuato sulla mano una rosa e una banconota da 100 dollari. Questo non può essere ritenuto un motivo valido per farlo».
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