Ogni giorno lo scontro fra Donald Trump e i giudici si arricchisce di una nuova asprezza. Il rifiuto di obbedire alla decisione di un tribunale sulla deportazione di presunti membri di gang venezuelane è il fatto più eclatante di questa fase, ma ci sono anche un magistrato secondo cui la devastazione di Usaid portata avanti dal Doge di Elon Musk è incostituzionale, un tribunale che ha sospeso il divieto per le persone transgender di servire nell’esercito disposto dal Pentagono e la Corte Suprema che è entrata nella disputa con una ingiunzione grave e inusuale.

Il capo della Corte suprema, John Roberts, è un conservatore di rito moderato molto attento all’equilibrio istituzionale e alla sua personale reputazione, che pensa sarà meglio servita nella storia se associata alla virtù dell’imparzialità. Insomma, non è il tipo che si lascia facilmente trascinare in una zuffa politica, ma la minaccia di un impeachment da parte del presidente a un giudice che ha chiamato, fra le altre cose, «un folle della sinistra radicale» ha evidentemente superato una soglia che nemmeno il più compassato dei togati può ignorare.

Il conflitto con il potere giudiziario sarà una costante anche di questo mandato di Trump. Un po’ perché i giudici ostacolano, bloccano o annacquano gli editti di Trump, complicandogli le cose e generando le reazioni iperboliche che sono l’essenza del suo carattere. Ma soprattutto perché le frizioni con i tribunali sono il risultato di una particolare interpretazione del potere esecutivo in cui l’entourage del presidente sembra credere fermamente.

La teoria legale alla base di questa concezione dice che la Costituzione, nell’Articolo II, attribuisce il potere esecutivo a una sola persona, il presidente, il quale perciò avrebbe la facoltà di controllare direttamente tutti i funzionari sotto di lui. In questo schema, le agenzie federali non sono organi indipendenti di cui la Casa Bianca nomina i leader secondo le consuetudini ormai codificate dello spoils system, ma sono strutture alla totale dipendenza del presidente.

È sulla base di questa concezione che la Casa Bianca sta smantellando lo stato federale e non tollera che i tribunali mettano in dubbio quel potere quasi monarchico-divino che discende da un’interpretazione della Carta che non veniva applicata dagli anni Trenta del secolo scorso.

Stephen Miller, vicecapo di gabinetto e architetto della politica anti immigrazione, ha spiegato qualche giorno fa che la decisione di bloccare le deportazioni «è l’ordine più illegale che un giudice abbia mai dato nelle nostre vite», perché il tribunale «non ha autorità sulle operazioni di sicurezza nazionale del potere esecutivo».

Il presidente, ha concluso Miller, «ha operato al massimo della sua autorità costituzionale». Traduzione: le corti non possono intervenire su ciò che decide il presidente nell’ambito delle sue prerogative costituzionali. Soltanto che Trump abbraccia l’interpretazione più radicale e accentratrice del potere esecutivo, quella che lo eleva al rango di re che dispone senza limiti, secondo le sue voglie, e nessuno può legittimamente contraddirlo. Anche per questo la Casa Bianca sta premendo l’acceleratore sulle iniziative dell’esecutivo, relegando il Congresso a un ruolo secondario.

Gli sfoghi iracondi di Trump non sono appena diretti ai magistrati che impediscono la realizzazione di questa o quella iniziativa: sono il grido di chi crede che la Costituzione, così come la interpreta, sia sotto attacco.

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