È una slavina che avanza da tempo, quella che oggi minaccia di travolgere il fragile edificio della democrazia statunitense. L’ultima tappa: la sfida aperta alla corti con la deportazione di centinaia di immigrati venezuelani. Lo scontro con il potere giudiziario rivela il progetto autoritario
La slavina è ormai partita. L’amministrazione Trump sta iniziando a sfidare apertamente le numerose ingiunzioni delle corti, ultime in ordine di tempo quelle che avrebbero dovuto bloccare l’espulsione a El Salvador di centinaia d’immigrati venezuelani e quella, scioccante, di una docente di medicina della Brown University con regolare visto di soggiorno cui è stata impedita l’ammissione nel paese al rientro da una visita alla famiglia in Libano.
Le prerogative della presidenza
Rifiutando l’autorità del potere giudiziario ovvero cercando di piegarlo al primato indiscusso dell’esecutivo (come sta avvenendo nei rapporti con il terzo potere, quello legislativo), Trump procede a estendere le prerogative della presidenza aprendo, di fatto, una crisi costituzionale. Nulla sembra poterlo bloccare.
Di certo non una costituzione anacronistica e obsoleta, che nel suo corpo scheletrico ed essenziale non sembra disporre di automatismi in grado di contenere la patente torsione autoritaria in atto, a maggior ragione dopo il pronunciamento della Corte Suprema del luglio scorso che conferisce al Presidente un’ampia immunità nell’esercizio delle sue funzioni.
È una slavina che avanza in realtà da tempo, quella che oggi minaccia di travolgere il fragile edificio della democrazia statunitense. Si nutre di tare e imperfezioni strutturali, a partire da un antiquato sistema della rappresentanza elettorale. Riflette la crescente sfiducia nella politica e finanche nelle istituzioni. È giustificata dall’inefficienza di questa democrazia, esemplificata dalla frequente paralisi legislativa e dall’incapacità di garantire protezione sociale e minori diseguaglianze economiche.
E si evidenzia plasticamente nella sua incapacità di generare i necessari anticorpi per far fronte a sfide eversive come quella che da tempo le sta portando Donald Trump, il cui tentativo d’impedire la pacifica transizione dei poteri quattro anni fa, non riconoscendo l’esito del voto e attivando vari tentativi per sabotarlo, non fu sanzionato con il necessario impeachment.
Progetto autoritario
A poche settimane dal suo insediamento, gli atti e le parole di Trump delineano i contorni di quello che è a tutti gli effetti un progetto autoritario. Un piano che oggi viene quasi ostentato o che si fa poco o nulla per dissimulare. E un piano che, in materia di politica estera, si accompagna e integra con una retorica neoimperiale, aggressivamente nazionalista e di cruda politica di potenza.
Tre sono gli elementi portanti di questo progetto. Il primo è rappresentato dalla summenzionata, radicale alterazione degli equilibri dei poteri. Trump procede per colpi di ordini esecutivi anche su materie non solo di competenza del Congresso, ma rispetto alle quali – si pensi solo al definanziamento di Usaid - le Camere a maggioranza repubblicana lo avrebbero pienamente assecondato.
Sono ordini illegali, laddove procedono allo smantellamento di agenzie federali create con atti del Congresso e finanziate, come da Costituzione, da quest’ultimo. E sono in taluni casi patentemente incostituzionali, laddove pretendono di modificare la Costituzione con un decreto presidenziale e non attraverso il tortuoso processo previsto invece dalla legge (l’approvazione a maggioranza qualificata dei 2/3 da parte di Camera e Senato, e la successiva ratifica dei 3/4 degli Stati).
Questo attivismo dell’esecutivo marginalizza intenzionalmente l’organo legislativo e porta a uno scontro deliberato con quello giudiziario, con l’obiettivo di sconfiggerlo, rimetterlo in riga od ottenerne l’investitura di legittimità con eventuali decisioni favorevoli della Corte suprema.
In parallelo - secondo elemento - si procede a un’azione di disintermediazione istituzionale, smantellando organi di controllo (il licenziamento in massa degli ispettori generali) e rimovendo i tanti diaframmi che dovrebbero esistere tra il presidente e il suo popolo.
Un processo in cui l’obiettivo di rimuovere vincoli e regole all’operato dell’Esecutivo s’intreccia con un’azione deliberatamente intimidatoria verso possibili contropoteri rappresentati dalla burocrazia federale o dai media. L’azione di Elon Musk a questo primariamente serve: a impaurire i milioni di dipendenti di quel governo federale che rimane il principale datore di lavoro del paese. Un’azione intimidatoria, questa, che si estende ad altri ambiti, università su tutti, con i tagli ai finanziamenti e gli arresti arbitrari di studenti coinvolti nelle manifestazioni su Gaza della primavera scorsa.
Le democrazie sono sistemi politici strutturalmente imperfetti, fragili e in costante trasformazione. Che gli anticorpi della più vecchia di quelle in vita, quella statunitense, fossero tanto indeboliti era visibile da tempo. E oggi è lecito nutrire più di un dubbio sulla sua capacità di non crollare sotto l’effetto dei veleni che ogni giorno Donald Trump inietta nel suo corpo affaticato e malato.
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