Donald Trump non perdona e gioca al rilancio: «Dazi al 125 per cento contro Pechino, con effetto immediato», scrive sul social Truth, ma allo stesso tempo annuncia anche la sospensione per 90 giorni delle tariffe reciproche per gli «oltre 75 paesi» che hanno contattato gli Stati Uniti e che «non hanno» risposto alle tariffe del presidente.

L’ipotesi di una pausa per dare spazio al negoziato era trapelata già giorni fa, poi smentita dalla Casa Bianca, segno che la manovra era preparata, e non frutto di improvvisazione. I beneficiari della tregua commerciale sono tendenzialmente i paesi che «mi chiamano, mi leccano il culo, muoiono per fare un accordo.

“Per favore, per favore signore, facciamo un accordo. Faremo qualunque cosa, qualunque cosa”», come ha detto Trump nel discorso, al solito errabondo e sfrenato, al raduno di mercoledì sera dei gruppi repubblicani al Congresso.

Il passaggio testimonia ancora una volta che Trump non riesce mai a resistere alla tentazione di essere sé stesso. Anche mentre i mercati precipitano in un vortice di instabilità che brucia ricchezza globale e fondi pensione dei suoi elettori, il presidente trova il modo di far prevalere il suo ego regale alla perenne ricerca di sudditi imploranti.

Tycoon compiaciuto

Il regnante della Casa Bianca guarda compiaciuto la fila di cinquanta – per ora, ma la lista è destinata da allungarsi – paesi che prostrati chiedono clemenza sui dazi e offrono condizioni commerciali vantaggiose per l’inevitabile partner americano.

Nella lista dei questuanti pronti a cedere al negoziato ricattatorio, Trump spera di poter inserire presto anche Giorgia Meloni, prima leader europea ad andare alla Casa Bianca nell’era post-dazi, che sarà a Washington il 17 aprile in quella che è certamente la missione più complicata da quando è al governo.

Ma l’esibito compiacimento dei paesi “leccaculo” che si umiliano per ottenere la grazia commerciale documenta anche un cambiamento di posizione che sembra stia maturando in questa fase traumatica. Se alla presentazione del Liberation Day dei dazi, la Casa Bianca insisteva sulle tariffe come entrata stabile nelle casse americane – con l’idea di finanziare il deficit – ora il messaggio è di tipo negoziale, e il compiacimento di Trump per il servilismo altrui sembra ora il preludio a negoziati bilaterali in cui Washington detta le condizioni e gli alleati eseguono.

Chi non cede si avvia sulla strada dell’escalation dei dazi, quella in cui si è messa la Cina, ma chi si allinea avrà aperture doganali.

La linea Navarro

Il cambio di postura lo si legge anche nelle parole di Peter Navarro, il consigliere più ascoltato da Trump sui dazi e la voce che chiaramente sta prevalendo in questa fase. Navarro è entrato in collisione ormai aperta e senza infingimenti con Elon Musk, che sui dazi ha posizioni diverse e liberoscambiste: quello gli dà spregiativamente dell’«assemblatore» di automobili, l’altro risponde direttamente che è un «coglione» (chi crede che la macchina del Trump II sia più strutturata e coerente di quella del Trump I deve forse rivedere le proprie convinzioni alla luce di queste risse da reality) e intanto Steve Bannon applaude il suo alleato protezionista e gode per la caduta dell’avversario più ricco del mondo. Ma tutto è transitorio nel mondo di Trump – a parte Trump stesso – e gli sconfitti di oggi possono essere i vincitori di domani.

Navarro, intervenendo sul Financial Times e in altre innumerevoli occasioni, dice che l’America vuole solo reciprocità e giustizia nei commerci, ma per ottenerle deve avere dagli altri paesi altre agevolazioni, trattamenti e vantaggi che non sono soltanto di natura tariffaria.

Nella struttura della globalizzazione sancita dal Wto, i competitor degli Stati Uniti usano, secondo Navarro, una serie di strumenti per danneggiare il paese, fra cui «manipolazione della valuta, distorsioni dell’imposta sul valore aggiunto, dumping, sussidi all’export, aziende di stato, furto degli Ip, standard produttivi discriminatori, quote, bandi, regimi di brevetto opachi» e, sempre di più, «guerre legali», come quelle condotte dai regolatori dell’Unione Europea nei confronti delle aziende tecnologiche americane.

I dazi sono perciò un mezzo non solo economico, ma anche negoziale, per riequilibrare una serie di presunte scorrettezze che non sono riconducibili soltanto alle barriere doganali. «Ai leader del mondo che, dopo decenni di truffe, ora improvvisamente offrono di abbassare i dazi, sappiate questo: è soltanto l’inizio».

Analogia con l’Ucraina

Trump, che finora ha insistito sui dazi come misure permanenti, ora sta aprendo all’ipotesi che l’orizzonte di questa lacerazione globale sia, a conti fatti, negoziale. Nei colloqui con i partner genuflessi come la Corea del Sud, ha spiegato Trump, «stiamo discutendo altri argomenti che non sono inclusi soltanto nei dazi», e fra questi ci sono le regolamentazioni sulle emissioni delle auto, il prezzo dei farmaci, i limiti imposti all’export del manzo Usa e i costi imposti a provider come Netflix.

I dazi, insomma, sono soltanto una parte di una rete di trattative più ampie che Trump non vuole condurresemplicemente da una posizione di forza, ma assoluto soggiogamento degli avversari sleali. In fondo, non è una logica molto diversa da quella che ha applicato con Volodymyr Zelensky, che, al netto del gioco dei temperamenti e dei nervi, è stato umiliato nello Studio Ovale per non aver accettato con entusiasmo un accordo sullo sfruttamento dei minerali che Washington considera un risarcimento equo per l’aiuto concesso finora all’Ucraina.

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