Non esiste spazio più integrato di quello nord-atlantico. In termini securitari, commerciali e finanziari l’interdipendenza euro-statunitense continua a non avere pari.

Gli investimenti diretti che corrono sui due sensi della direttrice transatlantica sono più di tre volte superiori rispetto a quelli delle rotte transpacifiche; i suoi volumi di scambi di merci e servizi rendono questo spazio ancor oggi unico; la Nato ha creato una organizzazione militare multilaterale, invero un’alleanza e una “comunità”, che non hanno precedenti nella storia.

È un processo costruito nei decenni, questo. Che ha conosciuto un salto qualitativo dopo la Seconda guerra mondiale, quando la relazione si è fatta al contempo più profonda e asimmetrica: contraddistinta cioè da un marcato squilibrio di potenza tra gli Usa e i loro partner europei.

Ne è conseguita una modifica radicale dei termini del compromesso su cui poggiano le relazioni transatlantiche. Con gli Usa a fornire protezione ai propri partner europei e ad aprire loro – e alle loro economie export-led, Germania e Italia su tutte – il proprio impareggiabile mercato; e con gli europei ad accettare i tanti privilegi simil-imperiali che gli Usa ottenevano in scambio.

“Crisologia” transatlantica

Come tutti i compromessi, anche quello transatlantico ha attraversato crisi periodiche ed è stato spesso rinegoziato. Da parte statunitense si denunciava – e si continua a denunciare – l’opportunismo europeo e l’insufficiente contributo alla spesa militare comune: l’ineguale condivisione degli oneri, il “fardello”, dell’integrazione securitaria.

Gli europei sottolineavano le tante contropartite di cui gli Usa potevano beneficiare e lo stato di loro sovranità sostanziale limitata prodotta dall’alleanza ineguale con gli Usa. Una dialettica, questa, che ha prodotto innumerevoli “crisi” e fatto preconizzare più volte l’implosione prossima della relazione transatlantica e della Nato stesse.

Intere biblioteche sono state dedicate a un genere – la “crisologia” transatlantica – su cui legioni di studiosi ed esperti – di storia, relazioni internazionali, studi strategici – hanno costruito la propria fama e fortuna. Anche per questo la tentazione potrebbe essere quella di archiviare questa nuova burrasca nei rapporti euro-statunitensi come solo un’altra, ennesima crisi transatlantica, destinata non senza fatica a rientrare.

L’alterità europea

Sarebbe però un errore farlo. Stiamo assistendo a qualcosa di oggettivamente nuovo. Che rende questa frattura tra Europa e Stati Uniti profonda e potenzialmente insanabile. Anche perché essa si accompagna e intreccia con la forza, in tanti paesi del Vecchio Continente, di partiti e governi scopertamente antieuropeisti che paiono avere come loro scopo e missione di quello di erodere dall’interno un progetto europeo di suo in patente difficoltà.

E che nel farlo trovano a Washington e in Trump una sponda e un alleato, come già fu nel 2016 per i sostenitori della Brexit nel Regno Unito, anche se allora Trump doveva essere ancora eletto presidente e il Partito repubblicano non era la macchina pienamente trumpizzata che è invece oggi.

Dentro gli schemi della rozza Realpolitik trumpiana, dove tutto è contingente e transazionale, l’Europa non è più un alleato tanto complicato quanto imprescindibile. È, invece, un “altro” al meglio subalterno e al peggio antagonistico. Alterità, subalternità e competizione costituiscono così le tre categorie fondamentali che definiscono l’Europa agli occhi di Trump.

La denuncia dell’alterità europea – e un antieuropeismo che tracima facilmente in vera e propria eurofobia – ha radici profonde nella storia statunitense che la retorica e l’ideologia dell’atlantismo non sono mai riuscite completamente a recidere; ne è stata, contraddittoriamente, uno dei tratti fondativi (la contraddizione risiede nel fatto che gli Usa nascevano simultaneamente come nuova Europa e come anti-Europa, separandosi dal Vecchio Continente e continuando a esserne parte).

Ed è tornata con forza negli ultimi decenni, soprattutto in una Destra che riproponeva, e radicalizzava, il campionario di consolidati stereotipi antieuropei: l’Europa debole, pavida, parassitaria, pigra e burocraticamente introflessa che Trump, Musk, Vance non mancano mai di caricaturare e accusare.

La subalternità europea

La sottolineatura di un’alterità negativa è andata di passo con l’affermazione della naturale subalternità di questa Europa agli Usa. Una subalternità tecnologica, militare e imprenditoriale, come evidenziato anche dal gap esistente in termini di ricerca applicata e capacità di innovazione. E una subalternità ora non solo da rimarcare, ma anche da sfruttare, imponendo ad esempio agli europei gli oneri della ricostruzione di un’Ucraina presumibilmente amputata così come di quelle garanzie securitarie minime che dovranno essere pur offerte a Kiev e di cui Washington dichiara di non volersi far carico.

Con una significativa torsione, anch’essa non priva di precedenti storici, questa Europa si trasforma però spesso, nella narrazione trumpiana, in un avversario abile e cinico, capace di sfruttare la generosa ingenuità statunitense per ottenere sicurezza gratuita, maturare ampi surplus commerciali e non fare la sua parte nell’azione di contenimento della Cina, il nuovo grande rivale di potenza degli Stati Uniti.

Già durante il suo primo mandato, Trump ha più volte denunciato la natura competitiva della relazione con un’Europa che, ebbe a dichiarare, è un «nemico» e non più un alleato. Un nemico e un "altro” da contrastare o di cui ripristinare una piena subalternità, come abbiamo ben visto in queste prime settimane del Trump II, che fatica immensamente a trovare una voce e una leadership a quella che è a tutti gli effetti una sfida che Washington le lancia.

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