L’attacco contro la sede dell’azienda aerospaziale turca Tusas ad Ankara ha scosso la Turchia in un momento particolarmente delicato della sua storia politica.

Nelle ultime settimane Devlet Bahceli, leader del partito ultranazionalista Mhp nonché alleato del presidente Recep Tayyip Erdogan, ha mostrato segni di apertura verso la formazione curda Dem e ventilato il possibile avvio di un dialogo tra le parti.

Bahceli ha da sempre una posizione molto dura nei confronti del partito curdo: ne ha più volte chiesto lo scioglimento per vie legali e ha definito in varie occasioni i suoi membri dei terroristi.

La “svolta” curda

Recentemente però qualcosa è cambiato. Bahceli ha stretto la mano a un parlamentare del Dem, compiendo un gesto che pur nella sua semplicità ha spiazzato l’opinione pubblica nazionale, e ha anche affermato che il leader curdo Abdullah Ocalan, in isolamento dal 1999 nel carcere-isola di Imrali, potrebbe ricevere uno sconto di pena.

In cambio, il capo e fondatore del Partito dei lavoratori curdi (Pkk) dovrebbe dichiarare la fine della lotta armata contro lo Stato turco e lo scioglimento del Pkk. Il gruppo, da anni nella lista delle organizzazioni terroristiche di Turchia e Ue, è ancora attivo nelle montagne dell’Iraq del nord.

La proposta di Bahceli è stata accolta favorevolmente anche dal presidente Erdogan e lo stesso Ocalan ha dichiarato che «la fine della lotta armata è possibile», secondo quanto riferito da Omer Ocalan, membro del Dem e primo familiare ad avere incontrato il leader curdo dopo quattro anni di visite negate.

Anche l’ex leader del partito filo-curdo Selahattin Demirtas - in carcere dal 2016 nonostante le condanne della corte europea dei diritti dell’uomo - ha ribadito il suo appoggio a una risoluzione politica della questione curda. L’attacco contro la Tusas però lascia intravedere una spaccatura all’interno del Pkk tra chi è pronto a seguire le indicazioni di Ocalan e chi vorrebbe invece proseguire con la lotta armata.

D’altronde il gesto di Erdogan e Bahceli non è certo disinteressato. I partiti di governo vogliono emendare la Costituzione per eliminare il limite ai mandati presidenziali e permettere all’attuale capo di Stato di presentarsi alle elezioni del 2028. Per farlo, è necessario il sostegno delle opposizioni, rappresentate in larga parte del partito curdo e da quello repubblicano, il Chp. La risoluzione della questione curda o anche solo un’apertura strumentale al dialogo potrebbero garantire al governo i voti necessari.

La questione siriana

Dal punto di vista regionale, questo processo è invece influenzato dalle tensioni a Gaza. Come spiega Riccardo Gasco, ricercatore dell’Università di Bologna e Coordinatore del Programma politica estera del think tank turco IstanPol, il governo turco teme che il conflitto possa travolgere anche la Siria, aggravando l’instabilità nella regione. «Questo interferirebbe con la possibile normalizzazione con il governo di Bashar al-Assad. Ma le relazioni con l’Iraq sono altrettanto rilevanti. Il processo di cooperazione nella lotta al Pkk non sembra aver prodotto i risultati sperati».

A livello internazionale, prosegue Gasco, la Turchia si sta preparando a diversi scenari legati alle elezioni statunitensi, soprattutto in caso di una vittoria di Donald Trump.

«In questo contesto, la questione siriana solleva interrogativi cruciali: un eventuale ritiro completo delle forze statunitensi potrebbe rimettere in discussione la situazione dei curdi sul campo. L’obiettivo principale di Ankara è impedire la creazione di uno stato curdo semi-autonomo che possa minacciare la sicurezza nazionale e l’integrità territoriale della Turchia». Anche il timore che l’Iran usi i suoi legami con alcune fazioni presenti in Iraq e Siria è tra le motivazioni che spingono Erdogan verso un’apertura alla controparte curda.

La risposta turca

Il governo turco ha risposto subito all’attacco ad Ankara, pur in assenza di una rivendicazione da parte del Pkk. L’aviazione ha bombardato il nord dell’Iraq, area in cui è forte la presenza del Partito dei lavoratori, ma anche il nord della Siria e in particolare Kobane, la città simbolo della resistenza curda contro lo Stato islamico.

Per la Turchia, Pkk e l’amministrazione autonoma curda della Siria del nord sono strettamente legate tra di loro ed entrambe sono percepite, pur essendo nei fatti due organizzazioni distinte. Gli attacchi però, secondo quanto riferito dalle forze curde, hanno colpito infrastrutture non militari e causato morti tra i civili, come già successo in passato e come più volte denunciato da Ong attive nelle regioni curde di Iraq e Siria.

Nessuna condanna è arrivata dall’Occidente, anzi. Il segretario della Nato, Mark Rutte, e i leader occidentali hanno criticato l’attentato ma non la risposta di Erdogan. Ciò dimostra ancora volta quanto il presidente turco sia percepito come un alleato fondamentale per stabilizzare il Medio oriente. Il tutto nonostante le vittime civili in Siria e Iraq e la generale repressione del dissenso che continua a portare avanti in patria.

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