- Secondo il Wall Street Journal né repubblicani né democratici vogliono che il conflitto in Ucraina si trasformi in una nuova forever war
- Un negoziato ha molte sfaccettature e articola gli interessi di ciascun protagonista: mediare fra le diverse opinioni anche in Europa non sarà un’impresa semplice
- Sul terreno però lo stallo rimane la prospettiva più probabile, con pochi movimenti anche se molto costosi in vite umane
In Ucraina si avvicina il momento del negoziato o almeno della tregua? Il Wall Street Journal dà spazio a vari commenti di tendenza conservatrice anche se di segno diverso. Si comincia dagli sforzi diplomatici in atto come il piano cinese (per ora respinto dai democratici), i tentativi turchi, la lista degli stati che si sono offerti di mediare (Brasile, Indonesia, Israele, Sudafrica e vari stati arabi).
Secondo l’autorevole quotidiano «esiste un limite al denaro e al materiale che gli Stati Uniti possono inviare in Ucraina».
Il dibattito Usa
Mentre in Europa si rimane fermi sul sostegno all’Ucraina, in America più si avvicinano le elezioni e più il dibattito si infervora. Sul medesimo giornale John Bolton, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Donald Trump, denuncia «l’incapacità di Washington di dichiarare obiettivi di guerra chiari e di forgiare una strategia per raggiungerli. Biden vuole che la Russia “perda”, ma sembra temere che l’Ucraina “vinca”».
Anche se Bolton è uno dei repubblicani che vorrebbe la “vittoria” contro la Russia, tale posizione è messa in dubbio da un numero sempre maggiore di responsabili americani: sulla guerra il mondo politico americano si divide. In realtà né i repubblicani ma nemmeno i democratici desiderano essere ricordati come responsabili di un’altra forever war.
In questo simile a quelle europee, anche l’opinione pubblica d’oltreoceano comincia ad avere dubbi su un conflitto che promette di eternizzarsi. Così aumenta la pressione interna sull’amministrazione Biden, come si è visto al lancio della candidatura di Donald Trump che ha fatto dell’argomento un soggetto centrale della sua campagna. Negli Stati Uniti raramente la politica estera diviene una priorità durante le elezioni, eppure mai come questa volta si invera il detto Usa «foreign policy begins at home»: la politica estera inizia a casa propria. Al pubblico occidentale inizia ad essere chiaro che, in assenza di sconfitta o vittoria definitiva di una delle due parti, si dovrà per forza giungere alla trattativa.
Quest’ultima sarà difficile e dolorosa perché includerà delle rinunce, come avviene in tutti i negoziati.
Quale tregua
Il punto è su quale tipo di accordo: ragionevolmente deve contenere aspetti che vadano oltre Russia e Ucraina, come ad esempio la ripresa del disarmo nucleare. La questione più difficile da risolvere sarà quella territoriale, in assenza della quale si andrebbe – come già detto – a una soluzione alla coreana o alla cipriota. Se non sarà possibile giungere allo scambio “pace per territori”, al massimo ci potrà essere una tregua.
Quest’ultima tuttavia non è nell’interesse dell’Europa: non possiamo accontentarci di una soluzione a metà o di una non-soluzione, che tenga la situazione in stallo e le economie europee in bilico. Il fronte bellico è troppo geograficamente vicino perché l’Europa possa far finta di nulla. Altra è la percezione degli americani che hanno un oceano di mezzo. Purtuttavia i governi occidentali sanno che le loro opinioni pubbliche vorranno girare rapidamente pagina e non accetteranno sacrifici che si prolunghino nel tempo (e ciò è anche indotto dalle conseguenze interne delle sanzioni alla Russia). Ci vuole qualcosa di più, una soluzione stabile e definitiva che però oggi è ancora molto difficile da immaginare.
Attorno ad un’eventuale tavolo gli interessi dei protagonisti sono divergenti: l’Ucraina vorrà recuperare tutto il territorio perduto ed avere garanzie militari (entrare nella Nato); la Russia cercherà di mantenere la parte occupata (e annessa) oltre che pretendere una Kiev neutrale; l’occidente punterà ad un accordo generale con la Russia sia sul nucleare (preoccupazione Usa) che sul resto degli stati ai suoi confini, come Moldavia, Bielorussia, Caucaso e così via (preoccupazione di europei e turchi).
Anche in Europa ci sono visioni diverse tra paesi dell’est (come la Polonia) e paesi occidentali (Germania in primis). C’è da considerare in filigrana il rapporto diretto bilaterale Usa-Russia che sta a cuore ai rispettivi comandi militari, con la Cina stabilmente inserita fra i due. Le accese polemiche tra Pechino e Washington (palloni spia ecc.) possono cambiare tutto ma il ruolo politico cinese sta crescendo e questa non è una buona notizia per Washington. Ci sarà da decidere sulla presenza dei missili balistici in Europa (non solo di testate atomiche) e di scudo antimissile. Alla fine tutti dovrebbero convincersi che è meglio discuterne per ricostruire un’architettura di sicurezza collettiva più solida e duratura.
Il rischio dello stallo
La guerra scatenata da Vladimir Putin aveva come obiettivi iniziali un’Ucraina sottomessa o distrutta e la diminuzione dell’influenza Usa in Europa orientale. Ha ottenuto l’effetto opposto e ciò rende furiosa una parte delle autorità russe ma sta facendo riflettere un’altra parte. Malgrado tali complessità il negoziato non è impossibile, come dimostra l’accordo sul grano. Paesi terzi hanno facilitato scambi di prigionieri. C’è da vedere se il piano cinese (per ora ne conosciamo solo i principi) riuscirà ad innescare una dinamica positiva: i prossimi vertici bilaterali chiariranno molti aspetti ora ancora confidenziali. Ad oggi la prospettiva più probabile è lo stallo sul terreno, con pochi movimenti anche se molto costosi in vite umane.
La resistenza davanti a Bakhmut sta comportando troppi sacrifici alle forze ucraine tanto che gli americani insistono perché sia abbandonata, considerato anche il suo scarso valore strategico. Per gli ucraini invece cedere sarebbe uno smacco simbolico. In ogni caso ciò potrebbe portare ad una tregua de facto nei combattimenti di cui approfittare per iniziare a parlarsi.
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