È il terzo anniversario dell’aggressione russa in Ucraina, e l’avvento della presidenza americana di Donald Trump ha accelerato quel processo di disimpegno su cui le superpotenze spesso si interrogano e di cui avevamo parlato già nel dicembre 2023. Si tratta del principio della “solvibilità strategica”, inteso come l’equilibrio tra risorse di potere e impegni che una superpotenza deve valutare per evitare l’overstretching che, a lungo andare, non consentirebbe di investire risorse militari, economiche e politiche su diversi fronti geopolitici.

Si pensi al caotico e frettoloso disimpegno dell’amministrazione Biden in Afghanistan nell’agosto 2021 in previsione di un probabile intervento americano in Ucraina e nel Medio Oriente nel breve periodo e nel medio-lungo nell’Indopacifico.

Fiumi di parole

Accanto a questo aspetto, tipico della politica internazionale, poco ponderato dagli analisti, opinionisti e politici occidentali, che non dovrebbero, quindi, essere ora sorpresi dai proclami di Trump, vi è un’altra questione che ha plasmato il dibattito politico in questi tre anni: la convinzione di una (auspicabile) imminente débâcle russa, non solo sul piano militare, bensì anche sul piano politico ed economico con il conseguente crollo del regime putiniano.

I “fiumi di parole” di analisti e opinionisti superficiali e spesso incompetenti sull’argomento e sull’area geopolitica dell’Est Europa, ha contribuito alla diffusione di una narrazione dicotomica – “vittoria dell’Ucraina/sconfitta della Russia di Vladimir Putin“ – spesso utilizzata per giustificare l’assistenza militare al presidente ucraino Volodymyr Zelensky.

Non bastava, a quanto pare, limitarsi a sottolineare che nessun regime politico può invadere il suo vicino e ledere i principi fondamentali della convivenza, del diritto internazionale, della sovranità e dell’indipendenza degli Stati nel XXI secolo e, come tale, era ed è opportuno difendere militarmente chiunque sia oggetto di questo sopruso.

Al contrario, in molti mass media occidentali si è preferito dare spazio all’enfasi sulla sicura vittoria dell’Ucraina per giustificare il sostegno militare agli occhi delle opinioni pubbliche occidentali, non tenendo conto, ad esempio, di tutti i limiti in termini di numero di soldati e di armi a disposizione dell’esercito ucraino e/o delle dinamiche di politica interna dei suoi alleati.

Forze armate impreparate

Questo non vuol dire che non ci sia stata una débâcle russa. È stato evidente sin dall’inizio della cosiddetta “operazione speciale militare” che l’esercito russo era impreparato per una guerra, grazie anche al lavoro delle intelligence americana e inglese che avevano contribuito a bloccare immediatamente il tentativo di sostituire Zelensky con l’ex presidente Viktor Janukovič, oltre alla inaspettata “resistenza” dell’esercito e del popolo ucraino.

È stato detto che la Russia aveva mezzi militari obsolescenti, non aveva abbastanza armi, nessuna strategia militare efficace, un esercito impreparato che avrebbe umiliato le gesta dell’Armata rossa del passato e generali non all’altezza del compito che gli era stato attribuito da Putin.

La situazione era, in parte, quella descritta, salvo per la quantità di carri armati, armi e proiettili che l’esercito russo non aveva ancora messo a disposizione e che, come abbiamo visto in seguito, attraverso gli aiuti provenienti dalla Corea del Nord, dall’Iran e dalla Cina (tanto per citarne alcuni), gli ha consentito di affrontare una guerra di attrito sul campo e di logoramento, più in generale.

Altra questione era la convinzione che il popolo russo avrebbe reagito contro il capo del Cremlino con una vera e propria rivoluzione dal basso o, addirittura, che la salute fisica e mentale di Putin fosse ormai agli sgoccioli e, quindi, per riprendere un detto dell’ex Kgb – «tolto l’ostacolo, tolto il problema» – la morte del presidente russo avrebbe lasciato il paese nel caos. Le politiche repressive di questi anni, messe in atto dal Cremlino contro i dissidenti, sono sempre state un chiaro monito a non protestare, rivolto a quella parte del popolo russo che si è sempre opposta al regime.

Per non parlare del fatto che i veri problemi per Putin sono sempre stati, come d’altronde la storia di quel paese dimostra, attorno alle torri del Cremlino: il caso della marcia su Mosca di Evgenyj Prigožin nel giugno 2023 è esemplificativo.

Ricordate Navalny

Infine, sin dai primi mesi del conflitto, è stato comunicato che le sanzioni imposte dall’Europa e dagli Usa avrebbero condotto la Russia all’inevitabile tracollo economico. Anche in questo caso, bastava un piccolo sforzo di ricerca e di studio per capire che le sanzioni sono uno strumento del diritto internazionale da applicare in situazione di questo tipo senza, però, aspettarsi che gli effetti avvengano quasi subito. Abbiamo numerosi esempi empirici che dimostrano il contrario, riassunti efficacemente nel sito Database Global Sanctions.

Potremmo andare avanti con altri esempi: ma quelli citati sono sufficienti per capire che la sconfitta della Russia – e, ricordiamolo, di una potenza nucleare – è sempre stata un’aspettativa poco credibile per chi avesse considerato più realisticamente la situazione. Un mero errore di valutazione delle classi dirigenti, in primis quella americana (dove sono finiti i cremlinologi dei tempi della Guerra fredda?), o una deliberata scelta per interessi di parte? Perché, quindi, insistere con questo tipo di narrazione che, con il passare del tempo, è risultata sempre meno credibile?

Ci sono, come tutti i fenomeni sociali, un insieme di variabili che spiegano questa errata percezione della débâcle russa.

Sì, la Russia di Putin è decisamente più fragile rispetto al passato, soprattutto economicamente, ma il capo del Cremlino è riuscito a girare il coltello dalla parte del manico, sfruttando anche gli errori dei leader occidentali. Lo aveva capito anche Aleksej Navalny che, nel suo libro postumo Patriot, ci ha avvertito: «La verità è che sottovalutiamo la resilienza delle autocrazie nel mondo moderno».

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