I governi dell’Unione europea il 4 ottobre votano sull’aumento – fino al 35,3 per cento – dei dazi sulle auto elettriche importate dalla Cina, che si sommerebbero a quelli (reciproci), del 10 per cento, attualmente in vigore e che rischiano di scatenare una guerra commerciale, con Pechino che ha già approntato una serie di ritorsioni.

Per scongiurare le nuove tariffe (che scadrebbero dopo cinque anni) grazie alle quali l’Ue intende riequilibrare le distorsioni causate nel mercato dai sussidi statali di cui – secondo l’inchiesta ad hoc della Commissione – i produttori cinesi traggono vantaggio lungo tutta la filiera (dai minerali per le batterie, all’elettricità per gli impianti, ai prestiti agevolati), servirebbe il “no” di almeno 15 dei 27 membri, con una popolazione complessiva del 65 per cento o più degli abitanti dell’intero blocco.

Una maggioranza “ultra-qualificata” mai raggiunta finora in analoghe consultazioni. Il fronte dei contrari è guidato dalla Germania (che teme le rappresaglie di Pechino sull’importazione delle sue auto di lusso e sui colossi teutonici che da decenni hanno localizzato la produzione in Cina) e dalla Spagna, che ha cambiato idea (aveva detto “sì” ai dazi provvisori varati il 3 luglio scorso).

A favore delle tariffe si sono schierati, tra gli altri, Francia, Italia, Polonia e Olanda. E il rapporto sul futuro della competitività europea presentato recentemente al parlamento di Strasburgo da Mario Draghi ha invocato per industrie come quella dei veicoli a batteria protezioni commerciali «caute, difensive e progettate soprattutto per livellare il campo di gioco».

Il voto

L’esito apparentemente scontato della votazione odierna potrebbe tuttavia non rappresentare il redde rationem di quella che è stata battezzata come la “saga Ue-Cina dei veicoli elettrici”.

La diplomazia cinese è infatti da mesi mobilitata per evitare misure che penalizzino eccessivamente un’industria su cui ha scommesso tanto, sulla quale è in testa su tutti, ma la cui domanda interna non riesce ad assorbire l’offerta di decine e decine di produttori e startup che scalpitano per compensare con i profitti all’estero le perdite della guerra dei prezzi che stanno combattendo da ormai due anni per conquistare quote di mercato in patria.

Pechino ha brandito il bastone delle inchieste: quella sulla carne di maiale, di cui la Spagna è il principale esportatore Ue in Cina (per un valore di 1,2 miliardi di euro nel 2023) ha costretto il premier Pedro Sanchez a fare retromarcia rispetto a luglio, annunciando il suo “no”.

Mentre quella sul brandy (che colpirebbe la Francia) ha fatto arrabbiare gli agricoltori, che per protestare contro i dazi nei giorni scorsi hanno invaso Cognac con centinaia di trattori. Il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, nel tentativo di fermarne l’iniziativa, avrebbe addirittura minacciato di non dare la fiducia alla Commissione von der Leyen.

Ma nello stesso tempo la Cina ha mostrato anche la carota della localizzazione della produzione nell’Ue. Oltre alla Spagna, che ha aperto le porte a Chery (il primo esportatore cinese di auto) c’è l’Ungheria, dove Byd (il campione indiscusso degli Ev cinesi) sta costruendo un grosso stabilimento, mentre continuano gli abboccamenti con l’Italia, nonostante le indecisioni nel governo Meloni, frutto di due linee diverse (quella favorevole a un investimento cinese del ministro dell’industria e del made in Italy, Adolfo Urso, e quella contraria del ministro degli Esteri e vice presidente del Consiglio, Antonio Tajani).

L’accordo possibile

Il 19 settembre scorso a Bruxelles il commissario al commercio, Valdis Dombrovskis, ha avuto un faccia a faccia di otto ore con il ministro del commercio Wang Wentao. «Incontro costruttivo», l’ha definito il vice presidente della Commissione, «con le parti che si sono accordate per intensificare gli sforzi per trovare una soluzione efficace, applicabile e compatibile con la Wto al caso dei veicoli elettrici. Ciò senza condizionare l’inchiesta della Ue e le sue scadenze».

In sostanza Cina e Ue hanno concordato di riesaminare la possibilità di fissare un prezzo minimo per i veicoli elettrici (Ev) prodotti in Cina importati nell’Ue, per evitare di imporre tariffe aggiuntive definitive fino al 35,3 per cento contro quella che per la seconda economia del pianeta è diventata una industria strategica.

In sostanza, dopo che sarà stato approvato l’aumento dei dazi, la Commissione punta a proseguire il negoziato da una posizione di forza. Ma prima i dazi, ha chiesto con una lettera aperta un gruppo di economisti che mette in guardia: «La logica conclusione di una posizione strategica incatenata dalla paura di eventuali conseguenze negative è l’inazione perpetua».

Bruxelles vuole che sia Pechino a proporre un meccanismo in grado di eliminare l’effetto distorsivo sul mercato dei sussidi che l’esecutivo comunitario guidato da Ursula von der Leyen ha giudicato “illegali”, e inserire in un eventuale accordo di compromesso una clausola che permetta di far scattare immediatamente l’aumento dei dazi qualora il sistema di compensazione (basato su prezzo minimo, quote, o altro) si rivelasse inefficace o venisse disatteso.

Nel 2023 gli Ev, assieme alle batterie e ai pannelli solari, hanno occupato il podio dei principali prodotti d’esportazione, scalzandone abbigliamento, elettrodomestici e mobili. Merci ad alto valore aggiunto al posto di manufatti economici, che dovrebbero fare da battistrada per quelle “nuove forze produttive di qualità” che secondo Xi Jinping dovrebbero far avvicinare l’economia nazionale a quelle più avanzate.

Ma le auto elettriche sono altrettanto importanti per l’Unione europea, sia per l’obiettivo della decarbonizzazione che l’ha portata a vietare a partire dal 2035 la vendita di auto nuove che non siano a emissioni zero, sia perché l’industria dell’automotive dà lavoro a 14 milioni di europei e, dato il vantaggio del made in China sugli Ev, è fondato il timore che – in assenza di misure protezionistiche – potrebbe essere in parte fagocitata da Byd e le atre.

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