Un nome, Ursula, diventato sinonimo di una coalizione. La prima donna presidente della Commissione europea, eletta dopo la contestata e discutibile guida di Claude Juncker. Von der Leyen è stata la soluzione trovata dal duo Macron-Merkel, non solo a conferma dell’asse Berlino-Parigi quale traino dell’Unione e motore del Consiglio, ma come indicazione prospettica per il futuro.

Sebbene nella votazione all’interno della riunione dei capi di stato e di governo la cancelliera tedesca si fosse astenuta, più per cortesia e garbo istituzionale che per ragioni politiche, l’indicazione proveniva proprio dalle fila del Partito popolare vincitore delle elezioni e in cui giocava un ruolo rilevante.

Il candidato dei popolari alla presidenza era Manfred Weber, non proprio un alleato di Merkel e quindi di von der Leyen, che della cancelliera di ferro era stata ministra della Famiglia, del lavoro e della difesa. Sebbene Weber spingesse per evitare alleanze con i sovranisti, non riuscì a convincere una maggioranza ampia sul proprio nome all’interno del Consiglio che virò appunto su von der Leyen, dopo un lungo, teso e complicato negoziato protrattosi per tre giorni.

La maggioranza Ursula

Per soli nove voti il parlamento aveva confermato l’indicazione del Consiglio: 383 voti a favore a fronte dei 374, con 75 franchi tiratori all’interno della sua maggioranza. Determinanti i consensi del Movimento 5 stelle. Da quel momento si parla di “maggioranza Ursula” per designare una maggioranza ampia e variopinta.

La neo presidente della Commissione sorvolò: «In politica la maggioranza politica è la maggioranza. Solo qualche settimana fa non mi conosceva nessuno, molti eurodeputati erano risentiti per la questione del processo dello Spitzenkandidat, voglio lavorare con questo parlamento».

Esattamente la presenza di una maggioranza variabile, risicata numericamente, ma soprattutto molto diversificata ideologicamente al proprio interno, ha segnato l’esecutivo europeo, zavorrandolo.

Ma gli eventi hanno superato la possibile impasse conferendo a von der Leyen un ruolo in parte inatteso. Prima il Covid e poi la guerra in Ucraina hanno permesso alla presidente di ergersi a paladina dell’Unione anche forzando su alcuni passaggi.

Da Merkel a Forbes

La nuova presidente, considerata longa manus di Merkel da cui si è presto affrancata, ha visto il suo nome inserito nell’elenco stilato da Time delle 100 persone più influenti nel 2020, mentre Forbes l’ha definita la donna più potente al mondo.

Al di là delle classifiche, e della metodologia per stilare tali graduatorie, è rilevante che von der Leyen abbia assunto un enorme potere grazie al suo prestigio, alla debolezza dei leader europei e alla capacità di governare le crisi. Figlia di Ernst Albrecht, politico, imprenditore e funzionario della Cdu, è nata in Belgio e cresciuta nella capitale europea. Un destino segnato. I commentatori si sono spesso soffermati sulle sue caratteristiche anomale rispetto alla tradizione di presidenti uomini e, pertanto, smarrendo le specificità politiche.

La conservatrice disinvolta

Soffermandosi sul numero di figli, sugli araldi e sulla vita personale, si è un po’ perso di vista che von der Leyen era e rimane una politica conservatrice, una figura di rilievo della Cdu, non una progressista.

Se è vero che il ruolo istituzionale, le crisi, la maggioranza politica e parlamentare hanno mitigato apparentemente i suoi tratti partitici, nei momenti topici von der Leyen non ha tradito la sua tradizione. Il dialogo con le forze di estrema destra e con i conseravotir ne è la prova.

I dossier più importanti del quinquennio 2014-2019 sono certamente il Green Deal, sebbene ispirato e propugnato fortemente da Frans Timmermans, competitore di von der Leyen nel ruolo di Spitzenkandidat socialista.

Inoltre, l’accento è stato posto sulla regolamentazione dell’Intelligenza Artificiale che ha consentito all’Unione europea di essere il primo “stato” a legiferare in forma organica sul tema.

Ma è stato il Covid la prova del fuoco che ha marchiato il governo von der Leyen. Alla pandemia ha risposto facendo approvare la chiusura delle frontiere europee, in una sorta di prova di politica estera e di difesa, pur criticando il limite posto da alcuni stati agli spostamenti interni all’Ue. Nei riguardi dell’Italia è stata costretta a chiedere scusa – «non c’erano tutti i paesi nel momento del bisogno» – in una lettera inviata al quotidiano La Repubblica

Sulla gestione dell’acquisto dei vaccini è incappata in uno scandalo. La crisi sanitaria ha marcato l’agenda sociale di von der Leyen, tanto che la Commissione ha bloccato il Patto di stabilità per far fronte all’emergenza economica e finanziaria.

Dopo una forte diatriba tra Italia, Spagna e Francia da un lato e il premier olandese Mark Rutte, tra i promotori della linea del rigore, l’Ue ha risposto con il piano di rilancio Next generation della portata di 750 miliardi. Una vera svolta sul piano politico ed economico.

Sul finire del 2022 le estenuanti trattative tra Gran Bretagna e Ue dopo Brexit sono culminate nell’accordo commerciale di cooperazione. Sempre sul versante internazionale, certamente la guerra Russia-Ucraina ha rappresentato la sfida maggiore per von der Leyen e per l’Unione.

A poche settimane dall’invasione russa, e dopo la storica visita di Macron, Scholz e Draghi, von der Leyen si è recata in Ucraina a seguito del massacro di Buča e ha promesso che l’Ucraina sarebbe stata considerata per l’adesione all’Unione. Un’accelerazione sul piano diplomatico e internazionale, un nuovo protagonismo per la presidente.

Soprattutto dopo lo smacco subito da Erdoğan che in un incontro ad Ankara nel 2021 l’aveva lasciata in piedi, in un deliberato gesto politico oltre che uno sgarbo protocollare e diplomatico verso von der Leyen, anche in quanto donna. Dal “sofagate” la presidente era uscita paradossalmente rafforzata. Oggi su quella poltrona di presidente, allora derubricata a divano, von der Leyen intende rimanere politicamente salda.

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