Comincia la stagione delle sentenze della Corte suprema, e, dopo che lo scorso anno le cose per il campo conservatore erano andate bene, quest’anno il primo verdetto del massimo tribunale americano è una tegola notevole. Questa volta, dopo che nel 2022 si è cancellata la protezione federale del diritto d’aborto, c’era la pillola abortiva mifepristone, che secondo un gruppo di medici contrari all’interruzione di gravidanza è dannosa.

Ergo, a loro parere, si sarebbe dovuta rescindere l’approvazione data dalla Food and Drug Administration, l’agenzia che sovrintende l’autorizzazione dei prodotti farmaceutici.

Non c’è stata solo una sentenza favorevole, ma unanime. Per nessuno dei giudici, dunque, i ricorrenti avevano diritto di questionare una scelta di un ente federale. Secondo il giudice autore della decisione, il conservatore Brett Kavanaugh «lasciare aperta la porta su una caso del genere, avrebbe spalancato la strada a ricorsi su tutto ciò che non piace ad alcuni cittadini e categorie.

Ad esempio, i pompieri potrebbero fare causa contro le scelte che causano maggiori rischi d’incendio». Il mifepristone resta dunque in commercio, grazie alla strategia dell’amministrazione Biden che ha puntato dritta all’argomento più facile, ovvero l’inesistenza di un diritto preteso dai ricorrenti, sostenuti da organizzazioni legali conservatrici come l’Alliance Defending Freedom. Il problema è che questa scelta lascia la porta aperta ad altre cause a opera di soggetti come stati ed enti locali, che potranno decidere di tentare nuovamente questa strada, magari con maggiore fortuna, dato che stavolta non c’è nemmeno un’opinione dissenziente a cui aggrapparsi.

I diritti riproduttivi si confermano dunque uno dei punti deboli dei repubblicani praticamente sin dal giorno dell’ormai celebre sentenza (e per alcuni famigerata) Dobbs v. Jackson del giugno 2022. Da allora, nemmeno stati conservatori come il Kansas hanno bocciato per via referendaria il diritto di abortire, testimonianza dunque che una buona fetta di elettori repubblicani preferirebbe soltanto limitare la possibilità di interrompere la gravidanza, senza però cancellarla del tutto.

Un altro punto dolente, infatti, per quanto riguarda la formazione trumpiana è la fecondazione in vitro, strumento usato da molte famiglie per avere figli fertilizzando l’ovulo in laboratorio e impiantandolo successivamente nell’utero. Per alcuni “pro life”, gli embrioni fecondati che vengono talvolta scartati sono vite umane a pieno titolo.

Anche per questo lo scorso 16 febbraio la Corte suprema statale dell’Alabama, dominata totalmente da giudici conservatori, aveva stabilito che questa pratica fosse da bandire perché, secondo le leggi locali, l’aborto è considerato alla stregua di un omicidio. E quindi buttare via embrioni fecondati è pari a un delitto. I repubblicani, allora, ci misero rapidamente una pezza, a cominciare dallo stesso ex presidente Donald Trump, che aveva tuonato dalle colonne del suo social network Truth: «Dev’essere più facile avere dei bambini, non più difficile». E all’epoca c’era stato un coro di approvazione quasi unanime da parte degli altri esponenti del suo partito.

Oggi invece la situazione sembra leggermente cambiata. Grazie anche alla convention annuale di una delle maggiori congregazioni evangeliche, i battisti del Sud. Il potente gruppo religioso, infatti, ha stabilito a maggioranza che la fecondazione in vitro sia da condannare in toto per motivi praticamente identici a quelli del tribunale dell’Alabama. Stavolta c’è stato un silenzio assordante da parte repubblicana, anche perché i circa 13 milioni di aderenti sono una delle colonne del consenso granitico trumpiano.

Anche per questo il leader democratico al Senato Chuck Schumer ha tentato di mettere gli avversari con le spalle al muro, portando in aula un disegno di legge che proteggesse la fecondazione in vitro in modo simile a quello che era avvenuto con il matrimonio egualitario quando era stato approvato a fine 2022 il Respect for Marriage Act, una legge che codificava la protezione delle nozze omosessuali, andando oltre la sentenza della Corte suprema del 2015 che aveva esteso il diritto a livello federale, grazie al sostegno di una corposa minoranza di repubblicani. Ad approvare la legge sulla fertilizzazione degli embrioni invece, soltanto due senatrici moderate, Lisa Murkowski dell’Alaska e Susan Collins del Maine, insieme all’intero gruppo democratico.

Non sufficienti per superare l’ostruzionismo dell’opposizione che chiedeva in teoria una legge più restrittiva. In verità, i trumpiani hanno solo deciso di scansare la problematica che si porrà davanti a loro tra pochi mesi: sostenere gli evangelici nelle restrizioni progressive dei diritti riproduttivi, posizione che è particolarmente impopolare nei sobborghi urbani che fino a qualche anno fa erano bacini sicuri per la coalizione repubblicana, oppure scontentare gli evangelici e seguire l’idea di Trump di moderare i toni su tutti gli argomenti simili. Un dilemma che fa rifiatare i dem, a loro volta alle prese con divisioni politiche di altro genere.

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