Pechino prepara la rappresaglia all’inchiesta della Commissione sulle auto elettriche: nel mirino macchine di lusso, cognac e maiali, aspettando Trump
Pechino è pronta a reciprocare immediatamente l’aumento dei dazi sull’importazione nell’Unione europea di veicoli elettrici made in China, che potrebbe essere decretato dalla Commissione nei prossimi giorni, alla vigilia delle elezioni del 6-9 giugno. È stata la Camera di commercio cinese presso l’Ue (Ccceu) ad anticipare la prima contromisura: «Aumentare temporaneamente i dazi sulle macchine importate da Europa e Stati Uniti dotate di motori di grossa cilindrata».
Tra le compagnie più esposte a quella che la Ccceu ha definito una risposta agli «incrementi tariffari sui veicoli elettrici cinesi da parte di Washington e ai preparativi di Bruxelles per misure preliminari in un’indagine anti sussidi di alto profilo sui veicoli elettrici cinesi» c’è la tedesca Porsche, che nel biennio 2022-2023 ha venduto in Cina 172.569 automobili, quasi il triplo che in Germania. Varata il 14 maggio scorso, l’ultima bordata di tariffe Usa serve anche a sostenere la corsa dei democratici in vista del voto del 5 novembre, del resto Joe Biden è il presidente che ha promesso di riportare in patria la produzione emigrata nella “fabbrica del mondo” nei decenni ruggenti della globalizzazione.
E così gli Stati Uniti hanno alzato l’asticella dei dazi su merci cinesi per un valore di 18 miliardi di dollari, soprattutto nei settori strategici della green economy. A essere colpito dai rincari è il 4,2 per cento dell’import Usa dalla Cina, meno dell’1 per cento delle sue esportazioni globali.
La linea Biden
I dazi sulle auto elettriche (Ev) fabbricate in Cina passeranno già quest’anno dal 25 al 100 per cento, a rafforzare uno status quo che ha visto gli States accoglierne nel 2023 soltanto 12.362 unità, l’1 per cento dell’export cinese del settore. Gli Usa continueranno ad andare a benzina, e che il loro mercato degli Ev venga chiuso ai brand cinesi per questi ultimi fa poca differenza.
Anche per le batterie al litio – per e Ev e no – ci sarà meno spazio: i dazi saranno aumentati dal 7,5 al 25 per cento per entrambe, nel primo caso da quest’anno, nel secondo dal 2026. Sui microprocessori cinesi le imposte raddoppieranno a partire dal 2025 (dal 25 al 50 per cento), una misura che va letta in parallelo con i 53 miliardi di dollari stanziati due anni fa dall’amministrazione Biden attraverso il “CHIPS and science act”, nel tentativo di riportarne la manifattura negli Stati Uniti.
L’incremento da zero al 25 per cento di quelli sulla grafite naturale è stato posticipato al 2026, perché attualmente gli States possiedono solo l’1 per cento del prezioso minerale di cui la Cina processa il 90 per cento delle riserve globali. Stesso discorso per i magneti permanenti utilizzati nei computer e negli Ev, tra cui quelli con terre rare, delle quali la Cina vanta il 68 per cento della produzione globale.
Sui pannelli solari aumento dei dazi dal 25 al 50 per cento da quest’anno: negli Usa finisce solo lo 0,2 per cento delle esportazioni cinesi del settore, ma il dipartimento del Commercio sta subendo pressioni dalle associazioni degli industriali per colpire anche quelle provenienti dal Sudest asiatico, dove le aziende cinesi hanno localizzato la produzione che entra negli Usa.
Il monito di UvdL
Il monito di Ursula von der Leyen sulle «merci cinesi sussidiate che stanno inondando il mercato europeo», mentre il «mondo non può assorbire la produzione cinese in eccesso» – a chiusura del vertice con Emmanuel Macron e Xi Jinping del 6 maggio scorso – è la fotocopia di quello pronunciato un mese prima a Pechino dalla segretaria al Tesoro Janet Yellen.
La leadership cinese teme dunque che i dazi a stelle e strisce rappresentino soprattutto la carica suonata da Washington per spronare Bruxelles a unirsi alla guerra commerciale. Se così sarà, a risentirne saranno le già fredde relazioni Ue-Cina, nonché gli scambi globali. La Cina infatti l’anno scorso è stato il paese da cui l’Europa a 27 ha importato di più (il 20,5 per cento del totale) e il terzo destinatario delle sue esportazioni (8,8 per cento del totale), con un deficit per l’Ue (291 miliardi di euro) che nel 2023 si è ridotto del 27 per cento rispetto al 2022. Diversi segnali puntano in quella direzione.
Oltre all’inchiesta “anti sussidi” sugli Ev importati dalla Cina (che potrebbe portare presto all’aumento delle relative imposte, attualmente del 10 per cento), quest’anno Bruxelles ha avviato procedure “anti dumping” sull’importazione dalla Cina di ferro e acciaio, vanillina e lisina. Le autorità di Pechino hanno risposto con un’indagine sulle importazioni di brandy, per colpire eventualmente il cognac che arriva dalla Francia (principale sponsor del procedimento sugli Ev), per il quale quello cinese rappresenta il secondo mercato globale, con 32 milioni di bottiglie vendute nel 2023. E il 27 maggio i media di stato hanno rivelato che potrebbe essere aperto un analogo procedimento nei confronti del maiale acquistato dall’Ue, 1,55 milioni di tonnellate l’anno scorso, metà delle importazioni della carne alla base dell’alimentazione cinese.
In attesa del verdetto, l’inchiesta sugli Ev che arrivano dalla Cina della Commissione (uscente) più “geopolitica” di sempre divide non solo i paesi europei, ma anche le famiglie politiche. L’europarlamentare francese Aurore Lalucq (socialisti e democratici, S&D) ha sostenuto che Washington «fa bene ad andare avanti (ad aumentare i dazi, ndr) senza un’indagine», e che l’Europa «dovrebbe fare esattamente la stessa cosa». Secondo Lalucq, «Siamo in una guerra commerciale, il tempo sta per scadere, e stiamo perdendo industrie strategiche in tutta Europa».
Al protezionismo francese si contrappone la simbiosi che l’economia tedesca ha instaurato con quella cinese. Bernard Lange (Spd), a capo della commissione per il Commercio del parlamento europeo, ha dichiarato a proposito dell’aumento dei dazi voluto da Biden che «i benefici piuttosto limitati per gli Stati Uniti sono sproporzionati rispetto ai probabili danni collaterali, soprattutto per l’Europa». «Un capitolo inglorioso è stato aggiunto alla saga di America First», ha rincarato la dose Lange.
Tra Stalin e The Donald
A proposito di Donald Trump, è proprio lui che i cinesi aspettano. La leadership del partito comunista ritiene che se il populista-isolazionista tornerà alla Casa bianca, l’Ue dovrà adottare sulla Cina una linea meno conflittuale di quella portata avanti dalla Commissione von der Leyen. Intanto, contro l’ipotesi di una tragica riedizione della Guerra fredda, in Cina si è levata la voce di Shen Zhihua, accademico shanghaiese. Shen ha ricordato che lo «scontro sistemico della Guerra fredda si manifestò nell’economia, la Guerra fredda iniziò con un disaccoppiamento economico».
In una intervista al quotidiano hongkonghese South China Morning Post, Shen ha sostenuto che «Putin vuole tornare indietro e ricostruire l’impero russo», e avvertito che nonostante «la Cina e la Russia abbiano un comune nemico (gli Usa, ndr) che li spinge a unirsi, a mio avviso, la Cina dovrebbe attenersi alla politica estera dell’inizio della stagione di riforma e apertura, senza allinearsi con gli altri e senza tracciare linee basate sull’ideologia».
Una piuttosto evidente stoccata alla partnership “senza limiti” costruita da Xi Jinping con la Russia di Putin. Shen ha ripercorso le incomprensioni strategiche tra Usa e Urss, “influenzate dall’ideologia” e ha concluso: «Penso che l’errore fondamentale commesso da Stalin sia stato quello di separare completamente l’Unione Sovietica dagli Stati Uniti e creare un ciclo all’interno del campo socialista. Ciò fu estremamente dannoso per l’Urss. Il circolo economico del campo socialista fu tagliato fuori dal mondo, impedendo lo scambio di beni e tecnologia. Non hanno beneficiato del rapido sviluppo dell’altra parte. Vent’anni dopo, il divario economico si era ampliato».
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