- Né Pechino né Washington vogliono una guerra per la quale non sono pronte né la potenza in ascesa né quella egemone, che dal 1947 ha affidato la difesa dei suoi interessi nell’area allo United State Indo-Pacific Command, il più vecchio e il più grande comando militare interforze degli Stati Uniti.
- Eppure, in questa zona del Pacifico occidentale che si estende su un’area di 3,5 milioni di chilometri, delimitata a est da Taiwan e dalle Filippine, a sud da Borneo e a ovest dall’Indocina, il rischio è quello di un incidente.
- Il pericolo che diventa meno remoto via via che portaerei e sommergibili cinesi, statunitensi, britannici, tedeschi, giapponesi, affollano sempre di più le sue rotte strategiche per il commercio internazionale e per gli approvvigionamenti cinesi.
Il primo aprile 2001 il pilota Wang Wei dell’aeronautica militare dell’Esercito popolare di liberazione (Epl) diede l’altolà, affiancandolo col suo vecchio J8II, a un aereo spia statunitense in volo sul Mar cinese meridionale. Wang finì per fare a sportellate col grosso EP-3E della Us Air force. Il caccia cinese ebbe la peggio, schiantandosi in mare a sud-est di Hainan assieme al trentatreenne Wang, che non era riuscito a mettersi in salvo col paracadute.
Il velivolo americano, danneggiato, atterrò sull’Isola e i 24 membri dell’equipaggio furono trattenuti nella Repubblica popolare cinese per undici giorni nei quali andò in scena una teso braccio di ferro tra l’amministrazione di Bush figlio (che aveva appena annunciato una grossa fornitura di armamenti a Taiwan) e quella guidata da Jiang Zemin.
A vent’anni di distanza da quell’incidente che rivelò a Pechino l’urgenza di modernizzare la sua aviazione e la sua marina, nel Mar cinese meridionale (Mcm) i cannoneggiamenti rimbombano sempre più frequenti. Per ora si tratta solo di “esercitazioni a fuoco vivo”, simulazioni di scenari di conflitto con l’impiego di armi e munizioni.
Le ultime, dal 15 al 17 dicembre scorso, le navi dell’Epl le ha condotte a ovest di Hainan, nel Golfo del Tonchino, e a est e a sud della stessa isola-provincia che è anche la principale base della marina militare cinese, non lontano dall’arcipelago delle Paracel-Xisha. Martedì, il giorno prima che iniziasse il war game, un aereo spia statunitense RC-135 (novantaquattresima sortita dell’aviazione Usa dal mese di novembre) era decollato dalla base di Okinawa per sorvolare proprio l’area che Pechino aveva interdetto al traffico in vista dell’esercitazione. Secondo la South Chine Sea Probing Initiative, dalle portaerei Usa dall’inizio dell’anno sono partiti oltre 500 voli di ricognizione.
Rischio incidente
Né Pechino né Washington vogliono una guerra per la quale non sono pronte né la potenza in ascesa né quella egemone, che dal 1947 ha affidato la difesa dei suoi interessi nell’area allo United State Indo-Pacific Command, il più vecchio e il più grande comando militare interforze degli Stati Uniti. Alle prese con i loro problemi interni, dopo il ritiro dall’Afghanistan (al quale potrebbe seguire quello dall’Iraq) gli Usa non hanno ancora elaborato una strategia nei confronti del paese che pure dipingono sempre più spesso come una minaccia.
La Cina ha una marina, un’aviazione e capacità operative tuttora nettamente inferiori rispetto agli Usa. Ma le forze missilistiche dell’Epl possono disporre di nove tipi di sistemi missilistici diversi (molti dei quali tecnologicamente avanzati) in circa 450 punti di lancio sparsi per il paese: secondo il Pentagono già oggi, nell’eventualità di un conflitto, le portaerei a stelle e strisce nel Mcm verrebbero bersagliate da una micidiale pioggia di fuoco.
Eppure, in questa zona del Pacifico occidentale che si estende su un’area di 3,5 milioni di chilometri, delimitata a est da Taiwan e dalle Filippine, a sud da Borneo e a ovest dall’Indocina, il rischio – come ci ricorda la tragica fine di Wang – è quello di un incidente, un pericolo che diventa meno remoto via via che portaerei e sommergibili cinesi, statunitensi, britannici, tedeschi, giapponesi, affollano sempre di più le sue rotte strategiche per il commercio internazionale e per gli approvvigionamenti cinesi.
La sentenza dell’Aia
Per il Mcm transita circa il 30 per cento delle portacontainer in circolazione. Le stime della U.S. Energy Information Agency dicono che nei suoi fondali è custodito un tesoro di gas (190mila miliardi di metri cubi) e greggio (11mila miliardi di barili), che rappresenterebbe solo la metà di una ricchezza ancora inesplorata. Tra le zone più pescose del pianeta, vi proliferano centinaia di compagnie che conducono una pesca intensiva sfruttando manodopera migrante sottopagata (tanti i casi documentati di lavoro forzato) e devastando l’ecosistema.
Su questa fetta di Pacifico occidentale Pechino vorrebbe veder riconosciuta la sua “Nine-dash line”, un confine marittimo composto da “nove tratti”, disposti a forma di U, che racchiude gran parte del Mcm, compresi gli arcipelaghi delle Spratly-Nansha (contese tra Cina, Filippine, Vietnam, Malesia, Taiwan e Brunei), e delle Paracel-Xisha (rivendicate da Cina, Vietnam e Taiwan).
Le navi da guerra degli Stati Uniti – che non sono parte in causa in questi contenziosi territoriali – dalla fine degli anni Duemila solcano sempre più frequentemente le acque del Mcm, per far rispettare la libertà di navigazione nel “Free and open Indo-Pacific”, concetto lanciato nel 2007 dall’ex premier nipponico Shinzo Abe e da allora entrato in tutti i documenti ufficiali giapponesi e statunitensi con tanto di acronimo, Foip.
La “Nine-dash line” è apparsa sulle mappe cinesi fin dal 1947 e Pechino negli ultimi anni ha costruito una serie di isolotti artificiali, allargato atolli e creato avamposti militari per rafforzare le sue rivendicazioni territoriali. Ma nel luglio 2016, su ricorso di Manila, la Corte permanente di arbitrato dell’Aia ha dato torto alla Cina, sostenendo che la sua “linea di nove tratti” non le dà alcun diritto legale esclusivo sulle risorse del Mcm.
Il presidente Rodrigo Duterte, insediatosi un mese prima di quella sentenza, ha però riequilibrato le relazioni internazionali delle Filippine, rompendo parzialmente con gli Stati Uniti e avvicinandosi alla Cina. E così l’arbitrato dell’Aia è rimasto lettera morta. Ma il 9 maggio 2022, con le prossime elezioni presidenziali, le Filippine volteranno pagina (Duterte non è ricandidabile) e la sentenza dell’Aia potrebbe tornare a galla, agitando ulteriormente le acque.
Difendere i mari
Dopo il sacrificio di Wang, Pechino riorganizzò la difesa del territorio nazionale – che Deng Xiaoping aveva affidato esclusivamente all’esercito – spingendola “offshore”, iniziando a investire nella marina e nell’aviazione. Il bilancio della Cina per le spese militari è in continuo aumento e ormai allineato alle previsioni di crescita del Pil: 1.350 miliardi di yuan (209 miliardi di dollari) quest’anno, più 6,8 per cento rispetto al 2020. E gli sforzi di Pechino si sono concentrati soprattutto sulla difesa dei “suoi” mari. Secondo il Pentagono, con la sua flotta di 355 navi (che diventeranno 460 nel 2030) la Repubblica popolare cinese può contare già oggi sulla marina militare più grande del mondo.
Il 25 settembre 2012 Pechino varò la sua prima portaerei, la “Liaoning”, che in realtà era già entrata in servizio nel 1988 nell’ex Unione sovietica col nome di “Varyag”, venduta dall’Ucraina alla Cina una decina d’anni dopo. In questi giorni una flottiglia guidata dalla “Liaoning” – seguita da un cacciatorpediniere, una fregata e da una nave appoggio – sta entrando nell’Oceano Pacifico per un’esercitazione in alto mare. Pechino può contare da un paio d’anni su una seconda portaerei interamente “made in China”, la “Shandong”, mentre la terza è in costruzione nei cantieri navali di Jiangnan, a Shanghai.
Incomprensioni
L’esercito «pronto a combattere e a vincere le guerre» che sogna il presidente Xi Jinping non va né sottovalutato né sopravvalutato. Si tratta pur sempre di forze armate che – quando vent’anni fa il jet di Wang si scontrò con l’aero spia Usa - partivano da una condizione di grande arretratezza. Ma il pericolo, nel Mar cinese meridionale, è, ancora una volta, quello di un incidente tra cinesi e americani.
Il 27 settembre scorso il generale Mark Milley ha raccontato al Congresso come, negli ultimi mesi del 2020, la leadership di Pechino si fosse convinta che l’amministrazione Usa stava per attuare un piano per provocare un conflitto con la Cina, una october surprise che avrebbe dovuto favorire la rielezione di Donald Trump alla Casa bianca.
A innervosire i cinesi era stato proprio l’aumento dei pattugliamenti delle navi da guerra statunitensi nel Mar cinese meridionale. Per questo il capo di stato maggiore dell’esercito prese l’iniziativa di telefonare per due volte alla sua controparte, Li Zuocheng, il 30 ottobre, dopo che l’Esercito popolare di liberazione aveva elevato ad “alto” il livello di allerta delle truppe, e l’8 gennaio 2021, due giorni dopo l’assalto dei sostenitori di Trump a Capitol Hill, per assicurarlo che da parte americana non ci sarebbe stato alcun attacco a sorpresa.
Secondo il giornalista Bob Woodward, Milley assicurò a Li che lo avrebbe avvisato nel caso gli Usa avessero deciso di attaccare. «Noi non capiamo i cinesi e i cinesi non capiscono noi» disse Milley al suo staff.
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