Per anni Donald Trump è stato indubbiamente il principale motore dell’azione politica americana, sin da quando è sceso in campo nell’androne della Trump Tower il 16 giugno del 2015. Da allora sia alleati che avversari hanno dovuto fare i conti con le sue scelte, sia per contrastarle sia per farle proprie. Terza opzione, accettare le sue azioni con rassegnazione.

Da quando lo scorso 15 aprile è cominciato il suo processo a New York per i risvolti criminali legati al pagamento sottobanco di 130mila dollari fatto alla pornostar Stormy Daniels durante la campagna elettorale del 2016, Trump si è trovato invece a subire le azioni altrui. Prima con la stessa Daniels, poi con il suo ex legale e consigliere personale Michael Cohen.

La testimonianza di Daniels

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Vediamo perché Trump non ha potuto reagire come di consueto: in qualità d’imputato, si trova a dover tacere ed ascoltare in silenzio quello che viene detto. Anzi, il giudice Juan Merchan ha emesso un ordine restrittivo per impedire all’ex presidente di attaccare i giudici e i testimoni.

E così, eccolo taciturno quando arriva la persona che più viene nominata, in questo processo, ovvero la stessa Stormy Daniels.

Lei è stata molto trumpiana: ha attaccato l’ex presidente con un mix di accuse, insinuazioni e riferimenti volgari ai loro trascorsi personali insieme, che includono particolari espliciti comprese le posizioni in camera da letto fatte con il futuro presidente in una suite sul lago Tahoe, al confine tra California e Nevada. Un attacco devastante a cui Trump non ha potuto rispondere da par suo e che smonta uno dei suoi miti fondanti, quello di essere un presidente ultravirile, irresistibile per le donne.

Le parole di Cohen

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La testimonianza di Michael Cohen, l’ultimo chiamato dall’accusa rappresentata dal procuratore Alvin Bragg, ha un potenziale ancora più dirompente. Perché non coinvolge un’ex partner extraconiugale, ma un ex collaboratore e nemmeno uno qualunque, ma un suo grande ammiratore. Cohen, nelle diverse ore nelle quali ha testimoniato di fronte alla corte statale newyorchese e alla giuria composta da dodici persone, ha percorso anche la parabola umana.

Da figlio di familiari sopravvissuti all’Olocausto fino ad aspirante trader di Wall Street, le cui aspirazioni sono state frustrate dalla famiglia che per lui aveva deciso che sarebbe stato meglio una carriera da avvocato. Fino al percorso che da semplice collaboratore della Trump Organization lo conduce a entrare nelle grazie del tycoon.

«Quando mi diceva “fantastico” riguardo al mio lavoro, mi sembrava di toccare il cielo con un dito», ha detto l’ex legale di Trump. Anche per quello il suo ruolo è tracimato rispetto a quello di semplice legale. È diventato il suo braccio destro, con cui sistemare situazioni potenzialmente scomode. Il caso di Stormy Daniels non è nemmeno stata la prima volta che Cohen ha provato a calmare le acque ed evitare una situazione dirompente per Trump.

Lo ha fatto sempre nel 2016 con l’ex modella del magazine Playboy Karen McDougal, facendo sì che David Pecker, editore del tabloid scandalistico The National Enquirer, comprasse i diritti della sua storia extraconiugale con l’allora candidato repubblicano. In quel caso il Wall Street Journal riuscì a pubblicare un articolo sulla vicenda a quattro giorni dal voto, troppo tardi però perché potesse avere un effetto su una campagna elettorale che in larga parte era già stata decisa.

All’epoca era bastato un diniego della portavoce personale di Donald Trump, Hope Hicks, per mettere la cosa in secondo piano. In tutto questo, mentre Cohen parlava, sono apparsi dei sostenitori politici dell’ex presidente, forse scelti accuratamente: la deputata Nicole Malliotakis, la procuratrice generale dell’Iowa Brenna Bird e due senatori: Tommy Tuberville dell’Alabama e J.D. Vance dell’Ohio, ex scrittore di best seller e potenziale vicepresidente del ticket repubblicano.

La mossa di Trump

Nonostante Cohen abbia descritto minuziosamente tutti i dettagli della vicenda Stormy Daniels e delle preoccupazioni di Trump riguardo alle elezioni imminenti, c’è una carta che la difesa del tycoon guidata dall’avvocato Todd Blanche spera di sfruttare: la nota nomea di mentitore seriale dell’ex consigliere, una delle “doti” che lo avevano favorito agli occhi di Trump come “solutore” efficace di problemi da cancellare rapidamente.

Ironia della sorte, oggi Cohen, per dirla con un editoriale del New York Times, è diventato proprio una di quelle spine nel fianco che un tempo aiutava a rimuovere con mezzi leciti o illegali.

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