Di fronte a eventi come l’attentato a Donald Trump, le due guerre in corso, i focolai di rivolte simboliche e spesso sterili che ci attorniano (dagli agricoltori a Ultima generazione) è una tentazione naturale trovare un filo comune, una spiegazione unificata. Quando qualcosa ci turba, se riusciamo a spiegarlo, il turbamento ne viene lenito
Il 29 settembre 2001, a pochi giorni dall’attacco alle Torri, sul Corriere della sera apparve l’articolo di Oriana Fallaci poi divenuto La rabbia e l’orgoglio (Rizzoli, 2001). A conclusione, Fallaci scriveva: «Quello che avevo da dire l’ho detto. La rabbia e l’orgoglio me l’hanno ordinato».
A quasi venticinque anni da allora, secondo alcuni (per esempio Nadia Urbinati e Carlo Invernizzi Accetti su questo giornale, sulla scorta del libro di quest’ultimo, Vent’anni di rabbia. Come il risentimento ha preso il posto della politica, Mondadori, 2024), la rabbia è l’emozione politica che lega tutto quello che è successo in questo quarto di secolo.
Di fronte a eventi come l’attentato a Donald Trump, le due guerre in corso, i focolai di rivolte simboliche e spesso sterili che ci attorniano (dagli agricoltori a Ultima generazione) è una tentazione naturale trovare un filo comune, una spiegazione unificata. Quando qualcosa ci turba, se riusciamo a spiegarlo, il turbamento ne viene lenito.
La rabbia
Eppure talvolta a questa tentazione bisognerebbe resistere e provare a guardare i fatti nudi e unici, senza cedere all’impulso di unire i puntini. Se si considera la diagnosi contenuta nel libro di Invernizzi Accetti, questo è evidente.
Si tratta di un libro coraggioso e lucido. La tesi è semplice. Molto di quel che è accaduto negli ultimi vent’anni manifesta una specifica emozione, la rabbia: una reazione al mancato riconoscimento del proprio status, visto come violazione della propria dignità, una reazione che spinge ad azioni spesso spettacolari ed eccessive ed esprime una visione manichea e semplificatoria della realtà, che identifica nemici e protesta contro la supposta infrazione di un ordine morale costituito.
La rabbia, secondo Invernizzi Accetti, unisce episodi ed entità molto disparate: il movimento No global, il terrorismo islamico, l’euroscetticismo, le rivolte nelle banlieue, il Movimento Cinque stelle, i movimenti anti austerità, i populismi nazionalisti, #MeToo, #BlackLivesMatter, l’assalto a Capitol Hill. E forse l’attentato a Trump.
Per canalizzare e rendere politicamente fertile la rabbia, soddisfacendo le legittime richieste di riconoscimento, secondo Invernizzi Accetti si devono rivitalizzare la partecipazione politica nei corpi intermedi, essenzialmente i partiti, e il conflitto sociale strutturato, che sono le sfere dove soggetti individuali e collettivi si possono costruire e riconoscere a vicenda.
Umore di fondo
Ma si può essere d’accordo con questa proposta anche senza credere che ci sia un unico umore di fondo della politica degli ultimi vent’anni. Anche perché la descrizione di Invernizzi Accetti desta molti dubbi.
Innanzitutto, molti degli episodi che il quadro dovrebbe descrivere recalcitrano. Siamo sicuri che i movimenti ecologisti esprimano rabbia e desiderio di riconoscimento? Qual è il gruppo sociale o l’identità che questi movimenti vorrebbero venissero riconosciuta? I giovani? Le generazioni future? La natura?
Ma queste sono identità troppo generiche per essere riconosciute, o almeno per essere riconosciute nello stesso modo in cui si potrebbe dare riconoscimento all’identità dei borghesi francesi che indossano i gilet gialli o degli abitanti delle città medie dell’Inghilterra che hanno votato per la Brexit. Essere giovani non è uno status sociale.
È possibile che lo stesso umore caratterizzi fenomeni di massa, come il movimento no global e i movimenti anti austerità, e fenomeni d’élite o di piccoli gruppi, come appunto il terrorismo islamico o l’attentato a Trump (ovviamente non nel libro, ma spiegato da Urbinati invocando la teoria di Invernizzi Accetti)?
Ci sono poi problemi metodologici. Primo problema. Invernizzi Accetti protesta contro la riduzione di tutto a interessi economici di molte analisi e rivendica il ruolo delle questioni simboliche. Ma sostituisce una semplificazione a un’altra. Prima tutto era interesse materiale e razionalità economica. Adesso tutto diventa ricerca di riconoscimento.
E se la realtà fosse più complessa? Se tutto fosse un’interazione fra interessi materiali, reazioni rabbiose al mancato riconoscimento, ambizioni politiche, coscienza politica di minoranze organizzate? Se i contesti e le differenze valessero molto di più delle somiglianze? Riconoscerlo sarebbe un atteggiamento più umile e meno teoricamente imperialistico, in un certo senso.
Invernizzi Accetti si allinea, senza citarlo, a un progetto tipico della Teoria critica francofortese: delineare una fenomenologia della sofferenza e dell’ingiustizia sociale che trovi giustificazioni uniche. Un progetto criticato dall’esterno come forma di paternalismo teorico. Ma anche all’interno della teoria critica Nancy Fraser ha proposto una visione pluralista dove istanze di riconoscimento e di redistribuzione materiale vanno insieme, perché l’ingiustizia sociale può avere diverse fonti e manifestazioni.
Paternalismo teorico
Secondo problema. Come si può pensare di identificare l’unica emozione che muoverebbe le azioni di migliaia di persone? Una cosa è avere una teoria filosofica della natura umana, una lista di emozioni rilevanti – un’impresa millenaria che va da Aristotele a Martha Nussbaum.
Altra cosa è pretendere di dire che gruppi di individui che agiscono insieme ma senza progetto (sono “sciami”, non organizzazioni politiche, come Invernizzi Accetti dice citando Byung-Chul Han). Sostenere che un’unica emozione, così precisamente caratterizzata, stia nella mente di così tante persone equivale a pretendere di avere poteri telepatici. Oppure è una generalizzazione arrischiata, che non rispetta le individualità e i criteri di accuratezza di una descrizione sociologica. Una forma di paternalismo teorico.
C’è, poi, una questione concettuale. Ci sono varie forme di riconoscimento. Riconoscimento dello status superiore rispetto ad altri: questo è il riconoscimento della guerra di tutti contro tutti in Hobbes e parzialmente in Rousseau. È una rivendicazione tipicamente di destra, che vuole un mondo diviso in classi e teme l’eguaglianza.
Realtà complessa
Diverso è il riconoscimento hegeliano, la rivendicazione di autonomia del soggetto umano cosciente di sé, che lotta con altri soggetti per farsi riconoscere e diventa soggetto lottando. Questa è una rivendicazione classicamente di sinistra, che porta a forme di eguaglianza sostanziale. È la premessa della proposta di Invernizzi Accetti di rivitalizzare la partecipazione e il conflitto politico strutturato.
C’è infine il riconoscimento multiculturalista, come rivendicazione della propria identità culturale, individuale e collettiva, tipico delle ultime frontiere di sinistra delle politiche dell’identità e del politicamente corretto, un riconoscimento che porta più a forme di testimonianza e separatismo che a conflitto e partecipazione politica.
Mettere queste varie forme insieme sotto l’egida di un’unica emozione è di nuovo una maniera per non riconoscere, paradossalmente, diverse rivendicazioni e diverse soggettività politiche. Come se la rabbia come costrutto teorico finisse per obliterare le legittime ragioni di orgoglio di soggetti politici non adeguatamente riconosciuti. Un esito forse non voluto, ma sicuramente da evitare. Forse dire che la rabbia è l’umore di fondo della nostra epoca è una rinuncia a capire meglio lo spirito del tempo e l’astuzia capricciosa della ragione.
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