Trovare i file all’interno di cartelle e sottocartelle è oggi un’azione aliena per i più giovani, che per questa e altre ragioni vengono accusati di analfabetismo digitale: ma è davvero così?
Per la maggior parte dei millennial (e non solo), la classica metafora per spiegare com’è organizzato un computer è quella dell’albero. C’è un tronco principale, l’hard disk, da cui derivano alcuni rami (le cartelle, per esempio “documenti”, “download” o “scrivania”), da cui a loro volta nascono altri rami più piccoli, ovvero le sottocartelle che contengono i documenti del mutuo, i file di cui abbiamo bisogno immediato, i materiali di lavoro e tutto il resto.
Un’altra metafora spesso impiegata è quella dell’armadio, all’interno del quale ci sono compartimenti che a loro volta contengono i cassetti e così via: in una gerarchia di cartelle e sottocartelle che diventa via via più complessa a seconda della precisione con cui vogliamo ordinare i nostri file.
È un sistema organizzativo che molti danno per scontato: l’unico che permette di avere le migliaia di file conservati sul computer sempre sotto controllo e di poter ritrovare ciò che ci serve nel momento del bisogno. Anche i meno ordinati tra noi hanno almeno un’idea di massima di quale sia l’area del computer da cui iniziare la ricerca.
Immaginate allora lo stupore – di cui ci sono numerosi resoconti su forum come Reddit – dei docenti di informatica che, alla richiesta di recuperare un file da una determinata cartella, si sono trovati alle prese con studenti delle superiori o dell’università che non sapevano come compiere quest’azione apparentemente elementare. Peggio ancora: non avevano la più pallida idea di che cosa ciò significasse.
Per le generazioni più giovani, il concetto di cartelle e sottocartelle è spesso alieno. Come sono alieni i paragoni con gli alberi o gli armadi. Secondo le testimonianze raccolte in un’inchiesta di The Verge, la metafora più frequente tra gli studenti è infatti quella del cesto della biancheria: un unico luogo all’interno del quale si butta tutto alla rinfusa. Fuor di metafora, i ragazzi e le ragazze della Generazione Z tendono a salvare tutti i loro file sul desktop: migliaia di documenti, foto, video, ecc. archiviati (se così si può dire) in un unico posto.
Alberature invisibili
Com’è possibile? E soprattutto, come fanno a trovare ciò che gli serve? Per rispondere a queste domande, facciamo prima un passo indietro. Questo cambiamento nell’attitudine informatica degli studenti è stato osservato a partire dal 2015 circa, e riguarda di conseguenza chi è nato non prima dell’inizio degli anni Duemila: una generazione abituata, spesso fin dalla preadolescenza, a usare più lo smartphone del computer.
Non è un caso: sugli smartphone l’alberatura dei file è invisibile e (nel caso degli iPhone) quasi inaccessibile, sostituita da quella che un docente, sempre su Reddit, ha definito «l’astrazione del filesystem». Non sappiamo dove siano fisicamente salvate le foto sull’iPhone, sappiamo soltanto che compaiono aprendo l’applicazione Foto.
Non abbiamo nemmeno bisogno di organizzare le fotografie in base agli anni o ai luoghi visitati, perché lo fanno iOS o Android per noi. Tutto ciò, per la generazione cresciuta con lo smartphone in mano, contribuisce inevitabilmente a rendere bizzarro il concetto stesso di albero dei file.
Nuovi metodi
Ci sono altri aspetti da prendere in considerazione. Sempre la Generazione Z è cresciuta ascoltando musica e guardando film in streaming, senza quindi la necessità – comune alle generazioni precedenti – di salvare film e album nelle apposite cartelle, magari dividendoli per artisti o registi. Abitudini necessarie per facilitare la ricerca, ma che oggi hanno in gran parte perso la loro utilità.
Questo vale a maggior ragione visto che i computer, col tempo, si sono dotati di sistemi di ricerca interni che hanno enormemente facilitato l’individuazione dei file, permettendo di ritrovarli anche se non si ha la più pallida idea di dove li si è salvati.
Sistemi di ricerca interni come Spotlight sul Mac o Windows Search risalgono infatti ai primi Duemila, ma – soprattutto nel caso di Windows Search – sono diventati realmente utilizzabili solo parecchi anni più avanti. Di conseguenza, si legge su The Verge, «mentre la maggior parte dei professori di oggi è cresciuto senza usare le funzioni di ricerca su telefoni o computer, gli studenti di oggi non hanno mai vissuto in un mondo che ne fosse privo».
Da una parte gli smartphone, che hanno radicalmente cambiato il modo in cui accediamo ai file. Dall’altra, le piattaforme in streaming o i servizi cloud, che hanno in parte eliminato la stessa necessità di salvare dei file. In mezzo, le funzioni di ricerca interna dei computer, che permettono di non smarrirsi anche se i nostri computer non sono minimamente organizzati.
Il risultato è che una caratteristica che pensavamo essere peculiare dei nostri genitori o dei nostri nonni – la difficoltà a comprendere com’è organizzata la memoria di un computer – riemerge oggi nelle generazioni più giovani.
Il divario generazionale
È un passo indietro? Da un certo punto di vista, sì: soprattutto per le ricadute professionali di questo cambiamento (su cui torneremo tra poco). Dall’altro, chi oggi rimprovera alla Generazione Z di «non sapere usare il computer» probabilmente dimentica di quando eravamo noi Millennials a essere presi in giro perché non sapevamo scrivere neanche mezzo comando in MS-DOS (quello strano elenco di parole e sigle che bisognava digitare per far comparire sullo schermo ciò di cui avevamo bisogno).
I tempi cambiano e le competenze anche. Rimproveriamo ai più giovani di non comprendere il concetto di directory e cartelle mentre loro stanno editando e montando dei video direttamente sullo smartphone. Disapproviamo la loro incapacità a usare Torrent, mentre per noi è indecifrabile l’utilizzo di TikTok o Instagram al posto di Google (come fa ormai il 40 per cento dei più giovani).
È un aspetto forse poco compreso da studi come quello condotto da Dell, secondo cui il 56 per cento delle persone tra 18 e 26 anni avrebbe «abilità digitali molto basilari o carenti».
Possiamo escludere che loro giudicherebbero allo stesso modo le nostre, di abilità digitali? Il problema, per la Generazione Z, è che il mondo del lavoro – e in particolare degli uffici – è ancora dominato dalle generazioni precedenti, dai computer fissi, da hard disk esterni e addirittura da oggetti arcani come stampanti e scanner.
Tutto ciò produce situazioni che si fanno più bizzarre mano a mano che il divario generazionale si amplia. Per un informatico quarantenne che ha raccontato di aver messo un adesivo sul tasto di spegnimento di ogni computer dell’ufficio (per andare incontro alle difficoltà di giovanissimi abituati a chiudere fisicamente il portatile senza spegnere nulla), ci sono i boomer che rimangono sorpresi quando gli ultimi arrivati in azienda chiedono dove vada “appiccicato l’adesivo sulla lettera” (a quanto pare, la parola “francobollo” è in via d’estinzione).
Tech shaming
Restando al mondo tecnologico, questa dinamica professionale ha dato inevitabilmente vita a un termine specifico: “tech shaming”, far vergognare i più giovani della loro scarsa competenza digitale (rispetto ai parametri del passato). È probabilmente la stessa sensazione che parecchi quarantenni di oggi hanno provato quando, alle loro primissime esperienze in ufficio, si sono sentiti chiedere di spedire qualcosa via fax senza avere la minima idea di come funzionasse quell’aggeggio.
I dispositivi tecnologici cambiano e ciò che ieri sembrava normale oggi è preistoria. Se ne accorgeranno anche i ragazzi e le ragazze della Gen Z quando faranno “tech shaming” della generazione successiva alla loro. Una generazione che sarà cresciuta a visori in realtà aumentata o comandi vocali, e che magari non saprà nemmeno come scrivere su una tastiera.
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