Nei giorni 18,19 e 21 maggio — e quindi appena due giorni prima della strage di Capaci – Borsellino rilascia una lunga intervista al giornalista francese Fabrizio Calvi. L’intervista verteva sulla ricostruzione della marcia di avvicinamento di Cosa nostra ai circuiti dell’alta finanza, cominciata nei primi anni ‘70 quando si pose il problema di riciclare e reinvestire l’enorme massa di denaro provento soprattutto del narcotraffico gestito da Cosa nostra.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Nei giorni 18,19 e 21 maggio — e quindi appena due giorni prima della strage di Capaci – Borsellino rilascia una lunga intervista al giornalista francese Fabrizio Calvi (che lo aveva conosciuto tramite il Consigliere Rocco Chinnici e poi l’aveva incontrato nuovamente nel 1989, ricevendone indicazioni e notizie utili per il suo libro inchiesta “Vita quotidiana della mafia dal 1950 ad oggi, edito da Rizzoli).
L’intervista viene registrata con l’ausilio di una troupe televisiva di cui fa parte anche il regista produttore Jean Pierre Moscardo, (celebre per avere realizzato le ultimi immagini fumate della precipitosa fuga degli americani da Saigon nel 1975, nonché per il film documentario “Charter per l’inferno, sul fenomeno della droga e relativo indotto illecito); e avrebbe dovuto andare in onda sull’emittente televisiva francese Canal plus nell’ambito del docufilm di cui era autore il predetto Moscardo sugli affari della mafia.
L’intervista verteva sulla ricostruzione della marcia di avvicinamento di Cosa nostra ai circuiti dell’alta finanza, cominciata nei primi anni ‘70 quando si pose il problema di riciclare e reinvestire l’enorme massa di denaro provento soprattutto del narcotraffico gestito da Cosa nostra. In questa vicenda un ruolo importante sarebbe stato ricoperto da Vittorio Mangano, che tramite Marcello Dell’Utri era stato assunto alle dipendenze di Silvio Berlusconi, all’epoca imprenditore milanese in ascesa.
E Borsellino si soffermava sui trascorsi criminale del Mangano, precisando però che, quanto ai rapporti con Berlusconi era una vicenda di cui non si era occupato e quindi non si sentiva autorizzato a dire nulla, essendoci indagini in corso (“Non sono io il magistrato che se ne occupa, quindi non mi sento autorizzato a dirle nulla....so che c’è un‘inchiesta ancora aperta”).
Pur insistendo nella necessità di astenersi da riferimenti a nominativi specifici, sul fenomeno generale dell’evoluzione di Cosa nostra nel senso di una progressiva penetrazione nei circuiti dell’economia legale, per l’esigenza di gestire una massa enorme di capitali di provenienza illecita, Borsellino dichiara che «questi capitali in parte venivano esportati o depositati all’estero e allora così si spiega la vicinanza fra elementi di Cosa nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali, contestualmente Cosa nostra cominciò a porsi il problema e ad effettuare investimenti. Naturalmente per questa ragione cominciò a seguire una via parallela e talvolta tangenziale all’industria operante anche nel Nord o a inserirsi in modo da poter utilizzare le capacità, quelle capacità imprenditoriali, al fine di far fruttificare questi capitali dei quali si erano trovati in possesso».
E alla domanda se trovasse normale che Cosa nostra si interessasse a Berlusconi, rispondeva: «È normale che il fatto che chi è titolare di grosse quantità di denaro cerca gli strumenti per potere questo denaro impiegare. Sia dal punto di vista del riciclaggio, sia dal punto di vista di far fruttare questo denaro. Naturalmente, questa esigenza, questa necessità per la quale l’organizzazione criminale ad un certo punto della stia storia si è trovata di fronte, è stata portata ad una naturale ricerca degli strumenti industriali e degli strumenti commerciali per trovare tino sbocco a questi capitali e quindi non meraviglia affatto che, a un certo punto della sua storia, Cosa nostra si è trovata in contatto con questi ambienti industriali».
Quanto a Mangano, già da due decadi operava a Milano ed aveva attività commerciali, sicché «è chiaro che era una delle persone, vorrei dire anche una delle poche persone di Cosa nostra, in grado di gestire questi rapporti».
L’intervista si chiudeva con la consegna di alcuni fogli consultati nel corso della stessa, ricavati dalla stampa del file contenuto nel computer del magistrato e in essi comparivano i nomi dei personaggi citati (Mangano, Dell'Utri, Berlusconi, Rapisarda Alamia). Alla domanda su quando sarebbe finita l’inchiesta ancora aperta di cui aveva fatto cenno, Borsellino rispondeva: «Entro ottobre di quest’anno».
Un docufilm mai andato in onda
Ebbene, il docufilm di Moscardo non sarà mai realizzato per motivi a tutt’oggi non del tutto chiariti. L’intervista invece venne pubblicata in Italia, ma solo due anni dopo, nel marzo del 1994, in un lungo reportage de L’Espresso (“Borsellino, il testo dell‘intervista, Un cavallo per Marcello”: cfr. produzione documentale del pm). Né vi sono elementi per ritenere che Cosa nostra ne fosse venuta a conoscenza in tempo reale, o comunque prima che, a dire di Brusca, lui stesso ebbe modo di leggere quel reportage su L’Espresso.
Infine, nel mese di giugno trapela la notizia di due nuovi collaboratori di peso, come Leonardo Messina e Gaspare Mutolo. Entrambi chiederanno — sollevando un vespaio di polemiche e di tensioni all’interno della procura di Palermo di essere sentiti da Paolo Borsellino, che il 28 giugno confiderà alla dott.ssa Ferraro la sua amarezza e preoccupazione per la decisione del procuratore Giammanco di assegnare il fascicolo relativo alle indagini legate alle rivelazioni di Mutolo ad altri magistrati del suo Ufficio: decisione rientrata già alla fine di giugno, forse anche grazie alla mediazione della dott.ssa Ferraro che incontrò personalmente il procuratore di Palermo per sponsorizzare la designazione di Borsellino. E a partire dal 1° luglio, inizieranno gli interrogatori sia di Mutolo che di Messina condotti dal dott. Borsellino insieme al collega Aliquò e poi ai sostituti Lo Forte e Natoli.
E deve convenirsi (ancora una volta con quanto scrivono i giudici del Borsellino ter: v. pag. 591 della sentenza in atti) che l’allarme suscitato in Cosa nostra dalle esternazioni del dott. Borsellino non poteva che lievitare, atteso il più che fondato timore che egli potesse nuovamente ripetere, dall'alto della sua esperienza e capacità e grazie alle più recenti acquisizioni probatorie che i predetti consentivano, le fruttuose inchieste che avevano portato al primo maxi processo.
D’altra parte, Riina e i suoi fedelissimi non potevano essere certi di quale fosse il livello di conoscenza di vicende delittuose e retroscena che i due nuovi pentiti avrebbero potuto riversare sul magistrato più esperto e capace in tema di indagini antimafia; né potevano sapere che le rivelazioni più immediate e scottanti avrebbero riguardato, per ciò che concerneva Mutolo, personaggi delle istituzioni, accusati di infedeltà, collusioni mafiose o comportamenti inappropriati, e non sodali dell’organizzazione mafiosa e delitti di particolare gravità commessi da Cosa nostra (sicché non appare conducente l’argomento addotto dal giudice di prime cure per confutare la rilevanza delle notizie filtrate sulle due nuove collaborazioni come fattore che può avere concorso a rompere gli indugi nel dare esecuzione alla strage Borsellino).
Ebbene, nessuno degli eventi sopra richiamati appare cosi decisivo da potere sconvolgere i piani di Riina o una ipotetica tabella di marcia degli attentati in programma; e tuttavia essi nel loro insieme erano certamente idonei, come detto. A rafforzare il convincimento che si dovesse dare concreta esecuzione alla decisione di uccidere Borsellino senza immorare oltre.
La strage di via D’Amelio e la trattativa Ciancimino-Ros
Tirando le fila dell’excursus che precede, può così concludersi sul punto in esame. È possibile, ma non è provato, che Riina sia stato informato poco prima della strage di via D’Amelio dell’invito proveniente da emissari istituzionali ad allacciare un dialogo per fermare l’escalation di violenza mafiosa.
Ma anche se così fosse, l’operazione Borsellino era già in itinere; ed allora si può concedere che l’essere venuto a conoscenza che uomini dello stato si erano fatto sotto per negoziare non ebbe l’effetto di dare la precedenza all’attentato a Borsellino, sconvolgendo un’ipotetica diversa scaletta del suo programma criminoso: più semplicemente, non fece cambiare di una virgola, a Riina, i suoi piani.
Anzi, egli ne trasse un incoraggiamento ad andare avanti, non perché non fosse interessato alla proposta di avviare un negoziato, ma perché, pur volendo raccogliere tale sollecitazione, ritenne, non del tutto irragionevolmente, che una nuova terrificante dimostrazione di (onni)potenza distruttiva da parte di Cosa nostra avrebbe giovato alla sua causa, consentendogli di trattare da una posizione di forza e fiaccando ogni residua velleità dello stato di opporsi alle sue pretese.
È però possibile, ed anzi assai più probabile, incrociando le varie fonti di datazione degli avvenimenti in oggetto, che Riina sia stato edotto dell’iniziativa dei carabinieri del Ros e della sollecitazione rivolta attraverso Ciancimino soltanto dopo che la strage di via D’Amelio era stata commessa.
Ebbene, anche in tale evenienza, egli ne avrebbe tratto un incoraggiamento a persistere nei suoi piani, perché, se uomini dello stato si erano fatti avanti per trattare, dopo una seconda terrificante strage, ciò voleva dire che la strategia stragista “pagava”, nel senso che era un metodo efficace per ottenere che lo stato si piegasse alle richieste di Cosa nostra. E non era impensabile avanzare allora richieste altrimenti irricevibili, essendo tali richieste presidiate da una minaccia terribile e divenuta ancora più credibile di quanto non fosse già in precedenza.
Sotto questo profilo il nucleo essenziale del costrutto accusatorio esce validato dalla verifica probatoria: ma senza bisogno di evocare l’incidenza della sollecitazione al dialogo su una presunta accelerazione dell’iter esecutivo, accelerazione che non vi fu, o almeno non vi fu nell’accezione in cui la intende anche la sentenza qui appellata, nel solco di un refrain comune alle sentenze che hanno definito quasi tutti i processi celebrati sulle due stragi siciliane.
Se accelerazione vi fu, essa si verificò soltanto sul piano strettamente operativo e con riferimento alla sequenza finale della fase esecutiva, non appena si ebbe conferma che il dott. Borsellino quella domenica si sarebbe recato in via D’Amelio per fare visita alla madre, come in effetti soleva fare nei fine settimana (e come gli uomini di Cosa nostra cui era stato affidato il compito di organizzare e realizzare l’attentato sapevano, grazie alle attività di pedinamento e appostamento dispiegate nelle settimane precedenti), essendosi profilata, giusta quella conferma, l’opportunità di colpire nel luogo più idoneo tra quelli che erano stati studiati.
© Riproduzione riservata