La mancata perquisizione del covo di Riina — evento assolutamente unico nella storia giudiziaria degli arresti di latitanti — si è già visto come lo stesso Riina, che peraltro non era un qualsiasi latitante mafioso ma il capo di Cosa nostra, a distanza di vent’anni non riesca a capacitarsene...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Per quanto concerne la mancata perquisizione del covo di Riina — evento assolutamente unico nella storia giudiziaria degli arresti di latitanti, e di latitanti mafiosi, per i quali la perquisizione immediata dei luoghi in cui vivono è fondamentale non fosse altro per rinvenirvi elementi utili a individuare la rete di favoreggiatori — si è già visto come lo stesso Riina, che peraltro non era un qualsiasi latitante mafioso ma il capo di Cosa nostra, a distanza di vent’anni non riesca a capacitarsene.
Così come non riuscirono a darsene una spiegazione plausibile gli stessi mafiosi, come confermato dalle testimonianze di Giovanni Brusca, Antonino Giuffré e Tullio Cannella raccolte nel giudizio di primo grado ( e per le quali si Riinanda alle pagg. 1981-1997 della sentenza appellata) e che si aggiungono a quelle raccolte sul medesimo tema nel processo definito a carico di Mario Mori e del capitano De Caprio e in quello a carico dello stesso Mori e del Magg. Obinu. E le relative sentenze di merito hanno puntualmente evidenziato le tante anomalie e incongruenze dell’operato dei Carabinieri in quel frangente, che sono state richiamate dalla sentenza qui appellata al Cap. 13 della p. III.
Quell’evento è, come ha rammentato nel corso della sua deposizione il dott. Pignatone, e Riinane, per tutti i magistrati della procura di Palermo che ne conservano memoria, una ferita aperta: che talvolta può sanguinare di più, talvolta di meno, ma non si è mai Riinarginata. Né potrebbe essere altrimenti perché resta insanabile il contrasto tra la versione di De Caprio e quella dei magistrati che furono protagonisti della vicenda (cfr. Caselli e Aliquò) e parteciparono alla riunione in cui, su pressante richiesta dell’allora capitano De Caprio, e sull’onda dell’ammirazione e della fiducia per la brillante operazione di cui era stato artefice con i suoi uomini, si convenne sull’opportunità di soprassedere all’immediata perquisizione del residence, ma solo alla condizione (che fu esplicitata e non semplicemente sottintesa) che sarebbe proseguito il servizio di sorveglianza all’esterno del residence.
Secondo la versione dell’Ufficiale, vi sarebbe stato un malinteso sul punto, perché la sua idea era di lasciare che l’obbiettivo si raffreddasse, per non pregiudicare lo sviluppo delle indagini sui favoreggiatori di Riina e in particolare sui fratelli Sansone.
Ma deve replicarsi che proprio per questa ragione era stato trovato un compromesso con i magistrati, con l’impegno a proseguire il servizio di sorveglianza (tuttavia risiederebbe qui l’origine del malinteso: perché l’obbiettivo da sorvegliare, per De Caprio, erano i Sansone e la relativa attività di controllo e osservazione sui Sansone era cosa ben diversa e più ampia del servizio di osservazione visiva sul complesso di via Bernini).
Inoltre, quella linea giustificativa è contraddetta dalla spiegazione offerta della decisione di rimuovere il servizio, e cioè l’essersi reso conto che l’ulteriore permanenza del furgone avrebbe dato nell’occhio ed esposto inutilmente il personale operante, o non avrebbe sortito risultati utili per essere la visuale limitata al solo cancello d’ingresso. Ciò comproverebbe comunque che il capitano De Caprio era perfettamente consapevole che i magistrati avevano accettato di differire la perquisizione sul presupposto che il servizio di sorveglianza proseguisse (anche se è discutibile che quella fosse una condizione sufficiente ad evitare che il covo venisse ripulito, come poi è avvenuto; e il protrarsi del servizio di osservazione poteva al più, ma non era poco, consentire di individuare i soggetti che accedessero al residence, eventualmente sottoponendo in visione le immagini registrate al neo pentito Di Maggio).
In ogni caso, lo “spazio di autonomia decisionale” che, secondo quanto sostenuto da Mori a discolpa, avrebbe indotto il capitano De Caprio a rimuovere il servizio senza dame contestuale avviso agli stessi magistrati, costituisce una spiegazione assolutamente inadeguata, anche nella valutazione espressa al riguardo dai giudici d’appello del processo a carico dello stesso Mori e del Magg. Obinu, che pure ne confermarono la pronunzia di assoluzione dall’imputazione per il favoreggiamento aggravato contestato in relazione a condotte poste in essere nel successivo biennio (95/96) nei riguardi di Bernardo Provenzano.
Una scelta incomprensibile
A rendere ancor meno comprensibili le scelte operative e le omissioni del personale del Ros operante al comando del capitano De Caprio e sotto la supervisione del colonnello Mori, sono gli avvenimenti occorsi il 16 gennaio 1993, appena un giorno dopo l’arresto di Riina.
Quel giorno, filtra alla stampa l’indiscrezione che il covo in cui Riina aveva trascorso la latitanza prima dell’arresto era stato individuato in via Bernini. I giornalisti Alessandra Ziniti e Attilio Bolzoni hanno confermato di avere raccolto la notizia dal Magg. Roberto Ripollino, che tuttavia non aveva indicato il numero civico. Sta di fatto che diverse troupe televisive e giornalisti si precipitano in via Bernini e la stessa sera, in un servizio filmato mandato in onda su una Tv locale, vengono trasmesse anche le immagini del residence al civico 52/54 di via Bernini.
Il capitano De Caprio ha confermato di essere rimasto sconcertato alla vista di quelle immagini che vanificavano il tentativo di mantenere il riserbo sul fatto che il covo di Riina fosse stato individuato esattamente in quel residence (compreso il diversivo di eseguire l’arresto per la strada e a distanza di diverse centinaia di metri dall’abitazione predetta, corroborato dalle dichiarazioni del generale Cancellieri nella conferenza stampa del 15 gennaio). E commentò il fatto con il collega, M.llo Santo Caldareri, dicendogli che il sito era “bruciato”, come confermato dallo stesso Caldareri.
Ma se era bruciato il sito, lo era anche la pista dei Sansone, e quindi non vi sarebbe stata più alcuna ragione valida per differire oltre la perquisizione. E non si comprende come il capitano De Caprio potesse sperare che l’obbiettivo non fosse ormai definitivamente “bruciato”, ma potesse “raffreddarsi” in modo da consentire che il servizio di osservazione diretta venisse ripreso in un’imprecisata data successiva.
Lo stesso 16 gennaio dal Commissariato di Corleone giunge la notizia che la moglie di Riina era tornata in paese con i suoi figli. (Notizia che allarmò i magistrati della procura di Palermo, che si chiesero come quel movimento eclatante fosse sfuggito alla sorveglianza che si riteneva ancora in atto nei pressi di quella che era stata l’abitazione dei Riina: ma nessuno chiese spiegazioni agli ufficiali del Ros). Ma soprattutto, un comunicato ANSA rendeva noto che un siciliano di nome Baldassarre, dal Piemonte, dove si era trasferito da qualche tempo, aveva fornito agli inquirenti input preziosi per l’individuazione del Riina.
A questo punto i mafiosi, a cominciare proprio dai fratelli Sansone, disponevano di tutti gli elementi sufficienti per ricostruire i collegamenti che potevano avere condotto gli inquirenti ad individuare il capo di Cosa nostra. E infatti, paventando una trappola, decisero (cfr. Brusca e La Barbera) di affidare a Pino Sansone, che aveva pieno titolo a recarsi in quel residence, il compito di provvedere a “ripulire” il covo.
Non si comprende però come il capitano De Caprio e i suoi superiori (ossia, valenti investigatori a capo di un reparto d’elite e non reclute alle prime armi) potessero credere che la pista Sansone fosse ancora tanto utile da seguire, che valesse la pena rinunciare alla possibilità di rinvenire, attraverso un’accurata perquisizione, tracce utili allo sviluppo delle indagini e all’individuazione di favoreggiatori o soci in affari del Riina o a ricostruire la rete di rapporti economici o di attività estorsive controllate dal capo dell’organizzazione mafiosa.
E tutto ciò senza sentire il dovere di condividere una così sciagurata scelta investigativa con la procura competente, che, se informata, non avrebbe esitato un minuto di più (cfr. Giancarlo Caselli: « Era scontato, il procuratore della Repubblica non sospende la perquisizione se non c’è una vigilanza sull’obiettivo, altrimenti il procuratore della Repubblica dovrebbe cambiare mestiere») a ordinare l’immediata perquisizione (che, per la verità, fu effettuata soltanto il 2 febbraio, ossia due giorni dopo la riunione dei 30 gennaio ‘93 nel corso della quale finalmente i magistrati della procura di Palermo furono informati ufficialmente che il servizio di osservazione nei pressi dell’abitazione di via Bernini era stato dismesso già nel pomeriggio di giorno 15 gennaio; e dopo che, in data 1° febbraio, un comunicato Ansa aveva reso noto che il covo di Riina era stato individuato in quel residence di via Bernini).
Peraltro, l’attenzione che il Ros avrebbe tributato a Sansone come obbiettivo prioritario delle indagini successive alla cattura di Riina si sarebbe concretizzata in alcuni accertamenti societari e patrimoniali (ossia in ricerche d’archivio su cui fu redatta una relazione in data 26.01.1993). E, in compenso, con decreto del 20.01.1993 si pose fine — per ragioni a tutt’oggi imperscrutabili – a tutte le attività di intercettazione telefonica che erano state disposte sulle utenze riconducibili ai fratelli Sansone, inclusa ovviamente quella di via Bernini: vera ciliegina su una torta infarcita di dubbi e perplessità sull’operato dei carabinieri.
Una condotta che lascia aperta parecchi dubbi
Detto questo non può che convenirsi con il giudice di prime cure di questo processo quando, richiamando i passaggi più significativi delle sentenze che hanno approfondito la vicenda, afferma non esservi alcun dubbio che «la condotta posta in essere dai carabinieri allora guidati dall’odierno imputato Mori in occasione dell’arresto di Salvatore Riina desti nell’osservatore esterno profonde perplessità mai chiarite».
E il fatto che la stessa sentenza che ha assolto il generale Mori e il capitano De Caprio dall’imputazione di favoreggiamento aggravato, per carenza dell’elemento soggettivo del reato, abbia tuttavia confermato la materiale sussistenza della condotta contestata, «evidenzia la grave anomalia che in quella occasione ebbe a verificarsi per l’improvvida condotta degli imputati».
I giudici del processo Mori/De Caprio, però, dopo avere scartato quasi a priori l’ipotesi di un’inesistente collusione dei due imputati con le consorterie mafiose, pervengono alla conclusione di dovere escludere il dolo di favoreggiamento, essendo la prospettazione accusatoria smentita e contraddetta da elementi di ordine fattuale e logico. Tale prospettazione rimandava alla trattativa intrapresa da Mori con Ciancimino, e sul presupposto che tale iniziativa fosse diretta ad intavolare un vero e proprio negoziato con l’organizzazione criminale (e non fosse invece un escamotage per carpire informazioni utili alle indagini mirate alla cattura di Riina e di altri latitanti mafiosi addivenire, con il pretesto di volere aprire per conto dello Stato un canale di comunicazione con l’associazione per arrivare ad un cessate il fuoco, in cambio di importanti concessioni): un negoziato che contemplasse, per porre fine alle stragi, la garanzia per Cosa nostra di poter tornare impunemente alla pratica dei propri affari, inclusa l’assicurazione della latitanza di alcuni esponenti di spicco, nonché qualificati oppositori del Riina, come il Provenzano e la garanzia che la documentazione in possesso del boss corleonese, che in ipotesi poteva contenere anche informazioni compromettenti sulla trattativa, o sulle contiguità di esponenti politici a Cosa nostra, non sarebbe stata reperita dalle forze dell’ordine, permettendo invece a taluni esponenti mafiosi di entrarne in possesso anche in vista di un potenziale uso ricattatorio o per garantirsi la propria impunità.
E in tale ottica la mancata perquisizione sarebbe stato un atto di esecuzione dell’accordo raggiunto; e la consegna di Riina, fautore dell’avversata linea stragista, «il prezzo da pagare volentieri per coloro che, nella mafia, intendessero sbarazzarsi del boss per assumere il comando dell’organizzazione, ed al tempo stesso privilegiassero un’opposizione di basso profilo, più produttiva dal punto di vista della salvaguardia degli interessi economici del sodalizio e della sua stabilità».
Di contro, osservano i giudici di quel processo, che, sulla base delle prove raccolte nel corso dell’istruzione dibattimentale, poteva dirsi accertato che il Riina non era stato consegnato dai suoi sodali, ma localizzato in base ad una fortunata combinazione di elementi tra loro concatenati (a partire dall’input del Di Maggio su Pino Sansone quale favoreggiatore della latitanza di Riina e dal sopralluogo effettuato personalmente con il pentito presso gli uffici dei fratelli Sansone in via Bernini, anche se ad un civico diverso e distante qualche centinaio di metri dal residence in cui abitava Riina), e sviluppati grazie all’intuito investigativo del cap. De Caprio.
Inoltre dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che avevano riferito sulle modalità e circostanze in cui si pervenne a svuotare ripulire e ristrutturare la casa in cui aveva abitato Riina si evincevano elementi che inducevano ad escludere una connivenza degli imputati, perché la scelta di incaricare i Sansone di procedere all’eliminazione di ogni traccia relativa al Riina e alla famiglia dimostrerebbe che la mafia ignorava del tutto che invece proprio loro fossero stati individuati e grazie a questo si fosse pervenuti ad osservare via Bernini ed all’arresto del Riina (pag. 114).
Argomento, per la verità, di dubbia conducenza, perché non è detto i soggetti che organizzarono la ripulitura fossero gli stessi che, in ipotesi, avevano ordito la consegna di Riina, ed anzi è certo che essi appartenevano alla cerchia di capi e gregari più vicini al capo dello schieramento corleonese.
Sempre a parere dei giudici di quel processo, anche il sospiro di sollievo che Giuffré attribuisce a Provenzano a commento dell’esito negativo della perquisizione che era stata poi effettuata il 2 febbraio attesterebbe che io stesso Provenzano non si aspettava un simile esito e dunque non aveva partecipato ad alcuna trattativa mirata alla consegna di Riina (Un argomento, anche questo, che
prova troppo, perché il sospiro di sollievo poteva essere giustificato semplicemente dalla constatazione che l’operazione di ripulitura era andata a buon fine, oltre che dall’intento di allontanare da sé qualsiasi sospetto di avere avuto un ruolo nella cattura del capo di Cosa nostra).
Verrebbe meno dunque una indefettibile premessa fattuale dell’ipotizzato accordo, perché gli elementi raccolti escluderebbero che Riina sia stato catturato grazie ad una soffiata dei sodali che erano a conoscenza del luogo in cui abitava, ovvero questa resta solo una suggestiva supposizione.
Le stragi in “continente”
Ma soprattutto contro l’ipotesi accusatoria militerebbe la circostanza conclamata che dopo la cattura di Riina non si verificò affatto la fine della stagione stragista che avrebbe dovuto costituire oggetto e scopo del presunto accordo; ed anzi quella stagione riprese con rinnovata virulenza a partire dal maggio ‘93 con gli attentati di via Fauro e poi di via dei Georgofihi a Firenze ed ancora gli altri attentati in via Palestro a Milano e San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano a Roma, fino al mancato attentato allo stadio Olimpico.
Come si legge nella citata sentenza, «Se la cattura del Riina fosse stata il frutto dell’accordo con lo Stato, tramite il quale era stata siglata una sorta di “pax” capace di garantire alle istituzioni il ripristino della vita democratica, sconquassata dagli attentati, ed a “cosa nostra” la prosecuzione, in tutta tranquillità dei propri affari, sotto una nuova gestione lato sensu” moderata, non si comprenderebbe perché l’associazione criminale abbia invece voluto proseguire con tali eclatanti azioni delittuose, colpendo i simboli storico-artistici, culturali e sociali dello Stato, al di fuori del territorio siciliano, in aperta e sfrontata violazione di quel patto appena stipulato».
A parere di questa Corte emerge qui la fallacia del ragionamento che conduce ad escludere in radice l’ipotesi di un accordo o di un tentativo di accordo come causale della condotta favoreggiatrice in contestazione in quel processo. Ed invero, l’identificazione della causale della condotta favoreggiatrice sostanziatasi nella mancata perquisizione del covo di Riina in un patto di non belligeranza che contemplasse la consegna di Riina come prezzo dell’immunità e di una facilitazione del ritorno di Cosa nostra alla pratica dei propri affari illeciti, con la contestuale dismissione della strategia stragista, evidentemente non poteva concepirsi e intendersi né attuarsi come un accordo tra lo Stato, o pezzi rappresentativi degli apparati statuali e l’organizzazione mafiosa nel suo complesso, bensì come patto, o meglio ancora come ipotesi e proposta di accordo, con una parte dell’organizzazione mafiosa: e precisamente, con quella componente che soffriva la leadership di Riina e non ne condivideva la strategia di attacco frontale alle Istituzioni e di guerra aperta allo Stato.
Conseguentemente, il fatto che la strategia stragista fosse ripresa, alcuni mesi dopo l’arresto di Riina, a partire dal maggio ‘93 con più virulenza di prima non contraddice affatto quella ipotesi ricostruttiva, dal momento che la ripresa della strategia stragista, come è ormai processualmente acquisito perché accertato in più d’un processo definito con sentenza irrevocabile (a cominciare dai processi fiorentini sulle stragi in continente) fu deliberata solo all’esito di un lacerante contrasto conclusosi con il prevalere dell’opzione stragista contro quella patrocinata dallo schieramento più moderato.
I giudici del processo Mori/De Caprio, ritenuto che l’ipotesi di una trattativa Stato-mafia uscisse smentita dalle risultanze processuali, ne traggono l’ulteriore conclusione che l’iniziativa di Mori dovesse essere finalizzata a simulare l’interesse ad aprire un negoziato al solo fine di carpire informazioni utili a leggere le dinamiche di Cosa nostra e magari individuare i latitanti: salvo inciampare a loro volta in un’evidente forzatura sul piano logico-fattuale nel momento in cui pretendono di leggere una conferma di tale interpretazione (invece che un elemento stridente) nell’apparente incongruenza del comportamento di Mori e De Donno che si recarono dal Ciancimino a trattare, chiedendo il massimo, e cioè la resa dei capi, senza avere nulla da offrire: un comportamento che a parere dei giudici sarebbe viziato da un’evidente e illogica contraddizione se ci si ponesse nell’ottica di una trattativa vera invece che simulata.
In realtà, anche nell’ottica di una trattativa simulata, come già più volte rilevato, e come stigmatizzato anche dai giudici fiorentini, il brusco cambio di spartito della interlocuzione con Ciancimino resta difficilmente spiegabile e costituisce anzi uno dei principali fattori di sospetto sulle reali finalità dell’operazione.
In ogni caso, gli stessi giudici non possono esimersi dal formulare pesanti apprezzamenti sulla spregiudicata iniziativa posta in essere da Mori, che, «nell’intento di scompaginare le fila di “cosa nostra” ed acquisire utili informazioni, sortì invece due effetti diversi ed opposti: da una parte, la collaborazione del Ciancimino che chiese di poter visionare le mappe della zona Uditore ove si sarebbe trovato il Riina, verosimilmente nell’intento di prendere tempo e fornire qualche indicazione in cambio di un alleggerimento della propria posizione giudiziaria; dall’altra, la “devastante consapevolezza, in capo all’associazione criminale, che le stragi effettivamente “pagassero” e lo stato fosse ormai in ginocchio, pronto ad addivenire a patti».
La cattura di Riina
Anzitutto, nel ragionamento dei giudici di primo grado sembra quasi che la cattura di Riina sia sopravvenuta come un evento accidentale, nel percorso della trattativa; e che il segnale rassicurante lanciato con la mancata perquisizione del covo di Riina servisse a confermare che nulla era cambiato, e che restava ferma la sollecitazione a coltivare un dialogo finalizzato a porre fine all’escalation della violenza mafiosa ripristinare un costume di rapporti ispirato ad una pacifica coabitazione o almeno un tacito patto di non belligeranza tra Stato e mafia.
In realtà, la lettura offerta dalla sentenza non fa i conti con il dato conclamato che la cattura di Riina non era un accidente nel percorso della presunta trattativa, perché parallelamente allo sviluppo dei contatti con Ciancimino, Mori e i suoi uomini si preparavano e si attrezzavano (come detto sopra) per dare corso ad un’indagine sul territorio specificamente mirata a individuare e catturare il capo di Cosa nostra.
E dimentica di considerare che la trattativa con Ciancimino, a sua volta, non aveva avuto uno svolgimento lineare, ma, stando almeno alla narrazione dei tre protagonisti, aveva conosciuto ad un certo punto una Brusca interruzione e comunque una drastica svolta. Né si preoccupa, la sentenza di spiegare come quell’impegno investigativo si conciliasse con una sollecitazione al dialogo che Ciancimino avrebbe dovuto veicolare fino ai vertici mafiosi, intendendo per tali, indistintamente, gli esponenti mafiosi che in quel frangente storico comandavano su tutta l’organizzazione ed erano in grado di deciderne la linea: a cominciare ovviamente da Salvatore Riina e dai suoi più fedeli luogotenenti.
Ed invero, se la sollecitazione al dialogo fosse stata rivolta a Riina per essere da questi (r)accolta e condivisa con gli altri capi dell’organizzazione mafiosa o con quelli a lui più vicini, gli sviluppi successivi della trattativa così intrapresa con lo stesso Riina, sfociati di fatto in un brusco arresto della prima e nell’arresto del secondo, avrebbero inferto un colpo mortale alla fiducia della controparte mafiosa di questa presunta trattativa e alla stessa credibilità di quella proposta iniziale di parlarsi per trovare un’intesa: altro che mantenere o riprendere il filo di un possibile e auspicato dialogo. Su queste premesse, ben difficilmente il contentino della mancata perquisizione avrebbe potuto sanare questa perdita di fiducia.
Diverso è il discorso se s’intende la sollecitazione al dialogo come rivolta, nelle vere intenzioni di Mori e De Donno (e Subranni) - che saranno disvelate a Ciancimino all’atto dello showdown – non già al Riina, ma ai suoi potenziali competitor od oppositori: ovvero, a quella componente moderata che si riteneva radicata in Cosa nostra, anche se fino a quel momento soccombente, e disponibile a ripristinare un rapporto di non belligeranza con lo stato.
Allora sì che la mancata perquisizione poteva essere un segnale rassicurante e confermativo della serietà della proposta di intesa, lanciato a chi poteva coglierne il significato, e cioè a quella componente moderata che si era tentato di raggiungere attraverso Vito Ciancimino. Né vi sarebbe contraddizione, anzi, con il parallelo impegno investigativo per giungere alla cattura di Riina.
Un messaggio per qualcuno?
L’interrogativo cui dare risposta, allora, più che quello concernente un effettivo contributo di Ciancimino, e sullo sfondo di Provenzano, alla cattura di Riina sarebbe, per ciò che può interessare ai fini del presente giudizio, quello che verte sull’essere lo stesso Ciancimino riuscito a far avere il messaggio — ossia la sollecitazione a trovare un’intesa che passava però per la neutralizzazione della linea stragista e quindi aveva pur sempre come tappa necessaria la cattura di Riina e conseguente decapitazione dell’ala dura di Cosa nostra – al suo vero destinatario, che non era, ovviamente, Riina ma il suo principale competitor, Bernardo Provenzano.
Che l’ex sindaco di Palermo abbia fornito un contributo concreto all’individuazione del covo di Riina, sia Mori che De Donno (quest’ultimo peraltro non partecipò alle attività investigative intraprese a seguito della collaborazione intrapresa dal Di Maggio con le dichiarazioni rese il 9 gennaio ‘93; ma gesti personalmente e a quattrocchi i contatti con il Ciancimino dopo che questi aveva maturato la decisione di passare il Rubicone e cooperare alla cattura di Riina) lo escludono.
Anche se Mori deve ammettere che, ove non fosse intervenuto il suo arresto, Ciancimino avrebbe saputo fornire un contributo apprezzabile perché il residence di via Bernini ricadeva in effetti nel quadrilatero da lui descritto. E ciò fa ritenere plausibile che avrebbe potuto ulteriormente circoscrivere la zona da setacciare se gli fosse stata consegnata l’ulteriore documentazione di cui aveva fatto richiesta (v. infra).
E lo stesso Ciancimino sembra, in alcuni suoi manoscritti, riconoscere di non avere avuto tempo e modo di fornire quel contributo significativo che si riprometteva di dare quando lamenta che, se la sua collaborazione con i carabinieri non aveva dato i frutti sperati, la colpa era di chi l’aveva interrotta con un arresto del tutto pretestuoso.
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