- A Glasgow il Brasile ha aderito finalmente all’impegno per ridurre le emissioni di gas metano. La gran parte è causato dai processi digestivi di ben 220 milioni di capi di bestiame
- Il primo paese al mondo per produzione di carne deve ripensare il suo modello di business: oltre ai gas gli effetti degli allevamenti selvaggi sono la deforestazione continua e la pratica degli incendi
- Esistono tecniche molto avanzate sull’alimentazione degli animali, attraverso integratori. Poi va ridotto lo spazio dei pascoli a favore di progetti integrati con l’agricoltura e la foresta nativa
È più facile smettere di usare l’automobile o modificare i processi digestivi di una mucca? Tra gli impegni presi alla Cop26 ha destato un certo apprezzamento, misto a curiosità, l’adesione del Brasile ai tagli delle emissioni di metano. Perché è una sfida unica, e implica la collaborazione di una specie animale diversa dall’homo sapiens, sempre che quest’ultimo sia disposto a guidare il processo.
Secondo studi consolidati, difatti, nel paese sudamericano gli allevamenti sono responsabili del 73 per cento del metano emesso dell’atmosfera. I gas sono il prodotto della ruminazione e dei suoi effetti, la fermentazione enterica, che poi sono espulsi senza sosta dagli animali attraverso le eruttazioni e le flatulenze.
Affinché questo processo del tutto naturale possa mettere in pericolo il pianeta servono ovviamente grandi numeri. E il Brasile ce li ha. Oggi il paese conta con quasi 220 milioni di capi, primo posto al mondo. Ognuno di essi libera in media 60 chili di metano all’anno.
Metano e bovini
Così come oggi la scienza è in grado di calcolare con precisione quanta anidride carbonica viene emessa dalle ciminiere o dalle automobili, lo stesso avviene con il metano e il ruolo dei bovini. I dati sono preoccupanti e non lasciano alternative. E questo senza nemmeno tener conto che una larga fetta dei pascoli brasiliani sono su aree di ex foresta distrutta nel tempo.
La buona notizia è che il Brasile, tra i primi cinque paesi al mondo per emissioni di metano, ha firmato l’impegno della Cop 26 al taglio del 30 per cento da qui al 2030. In precedenza si era sempre opposto.
Da Glasgow le cronache riportano “imposizione” da parte degli Stati Uniti. Che però evidentemente ha funzionato solo in parte, visto che gli altri tre grandi paesi nella top five delle emissioni di metano (Cina, India e Russia) non hanno aderito all’impegno.
Per l’effetto serra, il metano è considerato 30 volte più inquinante dell’anidride carbonica, ma il suo effetto nell’atmosfera svanisce assai più rapidamente, un decennio contro secoli e secoli.
Per questo gli scienziati sono ottimisti che un taglio reale delle emissioni di metano possa avere effetti concreti sulla riduzione delle temperature già nei prossimi decenni, a differenze del CO2, la cui riduzione al momento può soltanto contenere il processo di riscaldamento globale.
Agrobusiness
Osservatori sostengono che il cambio di marcia del Brasile si è reso necessario, visto l’isolamento crescente del paese sulle questioni ambientali a partire dall’elezione di Jair Bolsonaro.
Ma il 2030 è dietro l’angolo e può apparire temerario il tentativo di cambiare il modello di una intera filiera dell’economia nazionale, oltretutto in una categoria come quella del grande agrobusiness, assai vicina alle posizioni conservatrici e negazioniste sull’ambiente.
Vediamo dunque cosa è realistico e cosa non lo è sulla questione. Il Brasile è il primo paese al mondo per esportazione di carne bovina, da aggiungere agli enormi consumi interni. Per ridurre l’emissione di 400 milioni di tonnellate di metano all’anno (dati 2020) provenienti dalle mucche brasiliane si dovrebbero ridurre i consumi di carne, il che è lasciato al libro dei sogni, o colpire un caposaldo dell’economia nazionale, altrettanto impensabile.
Convivenza fra mucche
Esistono invece margini interessanti su due fronti: la gestione delle mandrie e lo stesso processo digestivo degli animali. Lo spreco di terra e risorse è storicamente segnato dal rapporto assurdo di un bovino per ettaro di terra, soprattutto nelle aree di ex foresta (Amazzonia e Cerrado). Quando le bestie aumentano o il pascolo diventa inutilizzabile a causa della qualità dell’erba si aprono nuove aree, quasi sempre illegalmente e con il fuoco. È questa la prima causa di distruzione della foresta.
Secondo il massimo esperto di clima brasiliano, lo scienziato Carlos Nobre in una recente intervista a Domani, la bassissima produttività degli allevamenti brasiliani si può modificare facilmente ed esistono già esperimenti che funzionano. «Le immense fazendas senza più un albero vanno sostituite con progetti integrati di convivenza tra pascolo, agricoltura e foresta nativa. Da qui al 2030 potremmo convertire ben 72 milioni di ettari di aree attualmente degradate. L’impatto ambientale si ridurrebbe sensibilmente su vari fronti, tra cui quello del metano», spiega Nobre.
Secondo questi e altri studi non ci sarebbe alcun bisogno di diminuire il numero dei capi in Brasile, né di colpire i consumi o le esportazioni. Esistono tecnologie per far crescere più alta e rapidamente l’erba da foraggio, e permettere di far convivere più capi in una determinata quantità di terra. Questo permette di ridurre fino a un anno la vita utile dell’animale prima di essere abbattuto, con un taglio notevole delle emissioni.
Le resistenze della lobby
Poi si può intervenire sull’alimentazione: integratori a base di cereali e alghe marine, è stato dimostrato, riducono fino all’85 per cento la produzione di gas nel processo di ruminazione. Infine c’è la gestione dello sterco, il quale lasciato a decomporsi all’aria aperta è un altro importante fattore di emissione di gas.
Esistono progetti pilota nel Mato Grosso, dove il terreno per il pascolo è continuamente lavorato con la stessa cura di quello per le semine agricole. L’erba cresce più forte mentre il bestiame viene spostato continuamente da una parte all’altra della proprietà, per permettere all’erba di ricrescere naturalmente. Niente fuoco a fine stagione, dunque, né aperture di nuovi terreni per degrado continuo di quelli esistenti.
Se il Brasile riuscisse davvero a ridurre il metano potrebbe inoltre emettere “titoli verdi” sul mercato internazionale, che possono compensare sia eventuali cali delle esportazioni di carne sia finanziare i progetti integrati. Un esempio che già sta funzionando è quello della riduzione delle discariche a cielo aperto, seconda causa di emissione di gas metano dopo i bovini. Lanciato nel 2019, un progetto nazionale ha già portato all’eliminazione di un quinto di queste montagne di rifiuti.
Per riuscire ad avanzare su tutti questi fronti il Brasile ha bisogno di piegare enormi resistenze, soprattutto quella della lobby dell’agricoltura che è rappresentata trasversalmente al Congresso da centinaia di deputati e senatori. Alcuni dei quali definiscono folcloristica e senza alcun fondamento scientifico «la teoria del peto della mucca», come ha detto di recente il deputato federale Alceu Moreira. D’altronde non esiste alcuna buona teoria scientifica senza un suo contorno di negazionisti.
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