L’idea di fondo, che si possano ridurre i costi dell’elettricità da nucleare facendo molti reattori piccoli, è tuttora indimostrata. La storia della tecnologia finora è andata in direzione opposta (reattori più grandi) e ha fallito sul piano economico. E la stessa sorte è toccata ai pochissimi casi di SMR esistenti
Pochi mesi fa abbiamo ascoltato le fantasmagoriche dichiarazioni da parte di Eni che annunciava «la prima centrale elettrica industriale da fusione in grado di immettere elettricità in rete, che dovrebbe essere operativa nei primi anni del 2030». Come abbiamo già scritto in queste pagine, queste sono affermazioni destituite di ogni fondamento.
Ora il governo si appresta a inserire il nucleare nella nuova versione del Piano energia e clima (Pniec). Ma non si tratta della fusione di Eni, bensì dei piccoli reattori modulari (SMR, Small Modular Reactor), reattori di dimensioni fino a 300 MW elettrici, che dovrebbero essere prodotti in modo industriale (modulare) per ridurne il costo.
L’idea era già emersa negli anni ‘80. Anche in Italia si fecero due progetti, uno al Politecnico di Milano (reattore IRIS) e uno alla Sapienza di Roma.
Il professor Giovanni Battista Zorzoli ricorda che nel caso di IRIS «non era solo una invenzione universitaria, perché vi partecipavano diverse imprese, italiane e internazionali, ed è andato avanti per anni con finanziamenti importanti. Alla fine, è stato abbandonato perché si è visto che, malgrado l’idea dell’assemblaggio in fabbrica, con i costi non si tornava». Entrambi i progetti furono abbandonati.
Pochissimi prototipi
Se esistono un’ottantina di progetti diversi allo studio, sono pochissimi i prototipi di SMR funzionanti. Uno in Russia, un reattore di seconda generazione, un altro in Cina dal 2016. Entrambi hanno registrato costi tra il triplo e il quadruplo del previsto. Uno in costruzione in Argentina ha già registrato costi otto volte superiori al previsto. Due altri prototipi commerciali invece sono da pochissimo entrati in funzione in Cina (tecnologia pebble bed).
Negli Stati Uniti il progetto più rilevante è quello della NuScale. Ma in sedici anni di attività non ha mai realizzato il primo prototipo. Oggi è oggetto di class action da parte degli investitori per aver cancellato il progetto a causa dei costi eccessivi.
L’altro caso riguarda la Rolls Royce, che ha accantonato i piani di sviluppo degli SMR che prevedevano la costruzione di due impianti per produrre in serie i vessel ad alta pressione e altre componenti, a seguito del rinvio della decisione sul sito da parte dell’agenzia governativa britannica.
L’idea di fondo, che si possano ridurre i costi dell’elettricità da nucleare facendo molti reattori piccoli, è tuttora indimostrata. La storia della tecnologia finora è andata in direzione opposta (reattori più grandi) e ha fallito sul piano economico (vedi l’EPR francese e l’AP1000 nippo-americano). E la stessa sorte è toccata ai pochissimi casi di SMR esistenti.
La transizione è possibile
In California, quinta economia mondiale, le rinnovabili in questi mesi hanno superato la richiesta di elettricità per diverse ore al giorno e le batterie coprono una quota crescente della domanda serale e notturna. E siamo solo all’inizio.
La transizione energetica significa elettrificare i nostri consumi e per quelli non elettrificabili usare in prospettiva l’idrogeno e la quota possibile di bioenergie. Ma anche per produrre idrogeno, il nuovo nucleare è fuori gioco: il costo del kWh, secondo la banca d’affari americana Lazard, è superiore a quello delle rinnovabili anche considerando le batterie industriali.
Se, in un documento di pianificazione importante come il Pniec, si volessero attribuire quantità future di energia agli SMR, tecnologia esistente solo allo stadio di prototipo, sarebbe un falso ideologico.
La transizione energetica è possibile e le tecnologie sono in gran parte disponibili. L’idea che “con le sole rinnovabili non ce la facciamo” è indimostrata, mentre diversi sono ormai gli studi che ne verificano la fattibilità. Se oggi importiamo il 77 per cento dell’energia totale, la transizione verso le rinnovabili e l’elettrificazione di utilizzi come i trasporti e riscaldamento, può capovolgere la situazione rendendoci autonomi per tre quarti. Il mercato dell’energia cambierà ma non sparirà (l’idrogeno verde costerà meno in altri paesi) e anche su questo il nostro paese avrebbe delle carte da giocare.
Invece, continuiamo a divertirci con le supercazzole, dalla fusione agli SMR. Nel frattempo, le rinnovabili di fatto non corrono come potrebbero. In più una campagna anti rinnovabile cerca di bloccarle. L’obiettivo sembra sempre quello: proteggere il mercato del gas, delle fossili e delle industrie in retroguardia. Rischiando di far perdere al paese una delle più importanti, e certe, trasformazioni industriali della storia, quella delle rinnovabili.
La replica di Eni
In merito all’articolo “Dopo la fusione, i mini reattori. Tutte le balle sul nucleare”, a firma di Giuseppe Onufrio, Eni conferma l’obiettivo prefissato dalla società CFS, spin - out del MIT di Boston, della quale Eni è azionista strategico insieme ad altri soggetti internazionali rilevanti, di arrivare a realizzare la prima centrale elettrica a fusione su scala industriale in grado di immettere in rete elettricità entro primi anni del 2030. Si tratta quindi di un’iniziativa con attori di livello mondiale, con investimenti importanti e un elevato livello tecnologico: curioso che l’autore dell’articolo definisca questo impegno di sviluppo come privo di fondamento.
Eni è convinta dell’assoluta rilevanza dell’utilizzo delle energie rinnovabili al fine di compiere con successo la transizione energetica, ma ritiene fondamentale che queste siano affiancate da tutte le tecnologie e iniziative industriali già disponibili, efficaci nell’abbattimento delle emissioni e pronte a essere accolte a livello infrastrutturale e di mercato dagli attuali sistemi economici e industriali. Ne sono un esempio i biocarburanti, sia per il trasporto leggero (dove è fondamentale anche l’auto elettrica) che per quelli pesanti, aereo e navale, o la cattura e stoccaggio della CO2 per i settori hard to abate, ambiti questi ultimi dove l’elettrificazione e le rinnovabili non possono arrivare. Si tratta peraltro di leve riportate dai più referenziati scenari climatici (IPCC) ed energetici (IEA) di riferimento.
Eni ritiene altresì indispensabile continuare a investire in modo significativo nella ricerca e sviluppo di ogni possibile breakthrough tecnologico potenzialmente in grado di contribuire al successo la transizione, come la fusione, nella quale Eni crede in modo determinante.
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