Le molte cose dette e scritte sulla Cop29 e la morte di Shalom Nagar, l’esecutore della morte di Adolf Eichmann, che aveva ispirato l’elaborazione di Hanna Arendt sulla «banalità del male», hanno legami tra loro? Si dirà che qualche legame si può trovare, magari forzando, tra qualunque coppia di elementi, ma questo caso offre spunti interessanti e al contempo inquietanti di riflessione.

Proviamo a fare una iperbole.

Nel pensiero di Arendt, Eichmann «non capì mai cosa stava facendo» a causa della sua «inabilità a pensare dal punto di vista di qualcun altro». Mancando di questa particolare abilità cognitiva e senso critico, «commise i suoi crimini in circostanze che gli resero quasi impossibile capire o sentire cosa stesse facendo».

Ebbene, la negazione o anche la mancata consapevolezza del significato dei risultati sull’impatto dei cambiamenti climatici, non possono essere interpretati in modo analogo? Mutatis mutandis, l’inabilità del sistema capitalistico a ritenere le risorse umane e naturali disponibili illimitatamente ha portato alla crisi sistemica già oggi ben visibile (per chi la vede) e prelude crimini contro l’umanità.

Qui le responsabilità sono del paradigma produttivo-consumistico ma hanno nomi e cognomi di chi lo impersonifica, in funzioni di governo e gestione, reggenti e vassalli.

La crescita della CO2

Le previsioni basate su evidenze scientifiche solide e verificate sul campo, anche optando per gli scenari meno catastrofici dei 4 gradi di aumento della temperatura, consegnano già nell’arco di 25-30 anni situazioni disastrose per l’ambiente e la salute, con sconvolgimenti socio-economici drammatici a iniziare dalle migrazioni.

Sono stimate in almeno 216 milioni di persone che saranno costrette a migrare a causa delle conseguenze della crisi climatica (fonte Banca mondiale 2021) in particolare a carico dei 3,5 miliardi di persone che vivono in contesti altamente vulnerabili. Numeri quindi che sono superiori di almeno tre ordini di grandezza di quelli che oggi animano le posizioni propagandistiche più retrive del panorama politico, purtroppo non solo domestico ma anche europeo e internazionale.

E qui veniamo al nocciolo del problema, quello della crescita della CO2 a causa dell’abuso di combustibili fossili e delle relative conseguenze ambientali e sanitarie. È sulla esclusione di questo tema che va registrato il maggiore fallimento della Cop29. Giusto presentare e discutere degli stanziamenti deludenti (300 miliardi/anno al 2035 anziché 1.300, che sarebbero comunque stati 1/5 dei sussidi annuali ai combustibili fossili; fonte Fmi) per i paesi fragili da parte di soggetti pubblici e privati dei paesi più sviluppati, ma occorre non perdere di vista il cuore gravemente malato del problema, su cui non si interviene decidendo invece di abbassare la febbre dello sviluppo dei paesi che non sono i principali responsabili della malattia.

A tal proposito non guasta ricordare che Cina, Usa, Ue, India, Russia e Giappone consumano 2/3 di combustibili fossili, e producono oltre 2/3 della CO2. Leader di stati sviluppati e multinazionali dovrebbero investire in transizioni in altri paesi, con i relativi ricavi in termini economici (affari portano affari!) e di sovranità portata in casa d’altri: uno schema capitalistico non certo nuovo ma con un salto di qualità degno di riflessione sugli effetti che potrà avere sul rallentamento della crisi climatica e sul dominio sulle/delle risorse naturali e umane.

Sebbene la Cop29 abbia segnato un esito negativo in termini d’inclusione alla partecipazione di associazioni ecologiste e di scienziati del clima nelle delegazioni, il ruolo della scienza non risulta indebolito ma al contrario accresciuto, mentre per associazionismo c’è la necessità di un’ulteriore riflessione.

Le implicazioni della difficoltà della fase sono diverse perché diversi sono gli strumenti e le funzioni dei mondi della scienza e delle associazioni, sebbene parzialmente intrecciati.

Scienza e ong

La scienza indipendente e non asservita (per fortuna maggioritaria ma sul tema occorrerebbe approfondire) in virtù di un proprio statuto sul funzionamento e sulle procedure di accreditamento di cui dispone (in primis la revisione in cieco tra pari), ha una certa autonomia (sottoposta a limiti di finanziamento pubblico) e possibilità di fornire prove di qualità e costruire conoscenza valida che su clima-ambiente-salute sono andate crescendo.

Si sono moltiplicati i Rapporti delle agenzie internazionali (Unep, Who) e dei panel intergovernativi (Ipcc), le revisioni e metanalisi di riviste scientifiche storiche (esempio Lancet countdown), e sono nati nuovi giornali scientifici su planetary health e one health, è cresciuta vertiginosamente la produzione scientifica di gruppi di ricerca piccoli e grandi (oltre 52.000 articoli scientifici nell’ultimo quinquennio, 36.000 in quello precedente). Tutto questo andrà avanti e non potrà essere marginalizzato con mancati inviti alle Cop, che comunque saranno costrette a tenere conto dell’avanzamento scientifico, sebbene in tensione o contrasto con scenari oscurantisti di triste memoria ma che sembrano alle porte.

La scienza avrà un ruolo crescente anche nelle valutazioni di impatto e nel monitoraggio di tutte le azioni che saranno attivate.

Discorso diverso per le ong, molte delle quali riconosciute all’Onu ma ugualmente avversate di Cop in Cop, che a mio parere scontano l’assenza di una organizzazione mondiale in grado di moltiplicare le ricchezze e specificità di ciascuna dandosi uno statuto comune.

L’insufficienza delle Cop

Come sostenuto anche da Ferdinando Cotugno e Gianfranco Pellegrino su queste pagine, nonostante tutto, occorrerà continuare a confrontarsi con le Cop ma il problema è la loro insufficienza a innescare una transizione verde con obiettivi efficaci realizzati in tempi utili. Iniziative separate da parte delle ong potrebbero segnare una alterità e forse contribuire a rafforzare il movimento dal locale al globale.

Certo che non promette niente di buono la superficialità e ordinarietà con cui molti leader di governi e multinazionali trattano le cause conclamate di disastri già presenti e che si annunciano catastrofici, quando non le negano, né il fatto che l’approccio populista in questa fase paghi. Il pensiero alla banalità del male è difficile da evitare.

D’altra parte, nei prossimi anni gli eventi estremi – e quello che è accaduto in questi giorni alle isole Mayotte è lì a ricordarcelo – sono destinati ad accentuarsi e infittirsi, vedremo se i fatti peseranno di più delle parole, o le ragioni del profitto continueranno a prevalere su quelle della sopravvivenza. La dosatura tra pessimismo della ragione e ottimismo della volontà è sempre delicata e scabrosa ma non sembra esserci alternativa a piegare nella seconda direzione

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