Gli scienziati presenti a Baku si sentono fuori posto e messi da parte nel negoziato climatico, soprattutto da quando i vertici sono stati presi d'assalto dalle aziende oil&gas e ospitati in paesi produttori di fonti fossili
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«Dopo le conferenze sul clima torno consumato, depresso, devastato e mi sento così per settimane, mesi». James Kirkham non è un politico, è uno studioso di ghiacciai, ha lavorato per il British Antarctic Survey, è abituato al silenzio e al bianco del Polo Sud.
Nel piccolo padiglione di Cop29 sulla criosfera verbalizza un'inquietudine che sta diventando sempre più percepibile e condivisa: gli scienziati si sentono fuori posto e messi da parte nel negoziato climatico, soprattutto da quando i vertici sono stati presi d'assalto dalle aziende oil&gas e ospitati in paesi produttori di fonti fossili.
La voce inascoltata
Come spiega un dirigente dell'Ipcc, il gruppo Onu sui cambiamenti climatici, «tutta questa baracca esiste per il nostro lavoro, eppure qui sembrano esserselo dimenticato». Alle Cop la voce della ricerca e le presentazioni delle nuove scoperte si perdono nel rumore di fondo di incontri, affari e trattative che ormai prescindono dagli scienziati.
Florence Colleoni è un'esperta di Antartide e argomenta così il disagio suo e dei suoi colleghi: «C'è un distacco politico evidente, la nostra voce non arriva mai nelle stanze negoziali». È difficile controbilanciare la forza politica di migliaia di lobbisti del fossile che ogni anno entrano nelle conferenze del clima nascosti nelle delegazioni dei paesi.
Per tanti attivisti i lobbisti andrebbero messi alla porta. Colleoni non è d'accordo: «La Cop è una democrazia, non bisogna togliere spazio a nessuna voce. Siamo a noi a dover trovare la forza di imporci, il modo di farci capire. Il problema è che noi abbiamo una manciata di dati e grafici, loro hanno macchine informative e comunicative gigantesche. È una sfida impari».
C'è una sproporzione di forze che si vede a occhio nudo, gli scienziati che studiano ghiacciai, oceani e foreste sono costretti a condividere lo spazio e i corridoi con i padiglioni dell'Opec o dell'organizzazione degli esportatori di gas, realtà che hanno più soldi, risorse, influenza e accesso alla politica.
Secondo un rapporto di Climate Action Against Disinformation solo nell'ultimo anno otto inserzionisti di combustibili fossili hanno pagato a Meta (Instagram e Facebook) almeno 17,6 milioni di dollari per oltre 700 milioni di impressioni.
«Questo processo ha un valore che dobbiamo proteggere. Se non ci fossero le Cop, la lotta al riscaldamento globale andrebbe molto peggio», argomenta Kirkham. Il problema è la metamorfosi che i vertici Onu hanno avuto negli ultimi anni, in Egitto, Emirati e Azerbaijan, con il nuovo approccio delle aziende fossili.
Lo strapotere dell’industria oil&gas
L'oil&gas ha smesso di essere indifferente e ha iniziato a portare qui intere catene di comando, fino agli amministratori delegati, spesso per stringere accordi su nuove estrazioni degli idrocarburi (è successo in ognuna di queste tre Cop). Spesso sono accreditati come rappresentanti dei paesi (Italia compresa) e possono entrare nelle stanze negoziali, incidendo sui risultati. Cosa che uno scienziato non può fare: sono solo osservatori, politicamente disarmati.
«Poco fa ho conosciuto persone di Tuvalu, un arcipelago del Pacifico dove forse non andrò mai nella vita, come loro non verranno mai in Antartide, dove io passo la maggior parte del tempo. Mi hanno raccontato che non riescono più ad avere acqua potabile e suoli fertili perché l'innalzamento del livello del mare ha compromesso tutto, ed è dovuto a quello che osservo io in Antartide».
Queste alleanze sono preziose, ma anche marginalizzate e fragili: i rappresentanti dell'industria oil&gas sono più di quelli dei dieci paesi più vulnerabili messi insieme. La Cop è diventata innanzitutto la loro Cop.
Heidi Sevestre si occupa invece di permafrost, il suolo boreale ghiacciato sul quale poggia il 70 per cento delle infrastrutture dell'Artico e che collassando rilascia carbonio e virus dimenticati dall'evoluzione. Le notizie che ha presentato a Baku erano spaventose, della massima importanza pubblica. Alla presentazione c'erano dieci persone, la sua voce a stento si sentiva perché l'organizzazione internazionale della criosfera ha potuto permettersi un padiglione piccolissimo vicino all'entrata. Non avevano nemmeno gli amplificatori. Una piccola, crudele metafora di come vanno le cose alle Cop.
Dice Sevestre: «Non voglio che chiudano, ma ci serve una rivoluzione nel processo negoziale, gli scienziati devono essere presenti agli incontri, dovremmo almeno incontrare le delegazioni, poterci parlare. Spesso quando incontro informalmente i delegati mi rendo conto che non sanno niente, non sono informati, la conoscenza che dovrebbe essere alla base dell'azione semplicemente non passa più dove deve passare».
Il principio fondativo della conferenza è coinvolgere tutti i soggetti interessati nella transizione in modo inclusivo e aperto, ma la parte più ricca e potente ha tolto spazio a tutti gli altri.
«Almeno non prendeteci per ingenui», conclude Sevestre, «perché non lo siamo. Sappiamo cosa vengono a fare, e non è certo far avanzare la transizione. Anche io torno a casa affaticata, mi chiedo se ha senso venire qui e mi rispondo: sì, certo che ha senso. Anche un solo politico convinto ha valore. Dobbiamo anche fare autocritica. Non dobbiamo diventare più politicizzati, ma dobbiamo diventare più accessibili. Se diciamo le stesse cose da quarant'anni e non siamo ancora stati ascoltati, dobbiamo trovare il modo di dirle in modo diverso».
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