Stonehenge, il cerchio di pietre del Neolitico nella piana di Salisbury nell’Inghilterra meridionale, non ha ancora svelato totalmente i suoi segreti ed ora un’ultima analisi geochimica dell’Altar Stone, una lastra di arenaria parzialmente sepolta al centro del cerchio di pietre, suggerisce che vi potrebbe essere un aspetto della storia che finora era rimasto sconosciuto.

La ricerca

La ricerca, che è apparsa in uno studio pubblicato su Nature, sostiene che circa 4.500 anni fa, marinai del Neolitico potrebbero aver trasportato quel monolite da sei tonnellate per oltre 800 chilometri via mare, dall’estremo nord della Scozia fino a Stonehenge. Ciò renderebbe tale pietra unica rispetto a tutte le altre la cui origine è localizzata in Inghilterra e nel Galles. La scoperta ha suscitato un grande interesse tra gli archeologi.

Jim Leary, archeologo esperto di Stonehenge dell’Università di York (Regno Unito) ha detto: «È uno studio fantastico con alcune grandi implicazioni, in quanto i risultati aumentano la comprensione sui costruttori del sito, persone di una società neolitica vissuta in Gran Bretagna tra il 4300 e il 2000 avanti Cristo».

La cultura fiorì nelle isole Orcadi, in Scozia, diversi secoli prima che Stonehenge fosse completato e gli archeologi hanno sempre sottolineato l’elevata arte di quelle popolazioni che va dalle ceramiche ai monumenti che hanno eretto. Spiega Leary. «Sembra che quelle persone del Neolitico fossero non solo grandi artisti, ma anche geologi esperti, in grado di “leggere” le pietre e dare un significato alle loro origini, oltre che trovare connessioni tra loro».

La pietra in questione fu chiamata “Altar stone” dall’architetto del XVII secolo Inigo Jones, che lo definì così perché si trattata di una pietra sdraiata, anche se non è chiaro se il blocco un tempo fosse in posizione verticale.

Una “impronta digitale”

L’ultimo studio ha utilizzato la datazione e l’analisi chimica di minuscoli cristalli di zircone, rutilo e apatite presenti in frammenti della Pietra dell’Altare, i cui risultati hanno permesso di far risalire la sua origine nelle formazioni di Old Red Sandstone nel Bacino delle Orcadi nel nord-est della Scozia e nelle Isole Orcadi.

«È stato come trovare un’impronta digitale», ha affermato Anthony Clarke, della Curtin University di Perth, in Australia, che ha guidato lo studio ed è esperto nella geocronologia delle rocce. «Era una corrispondenza perfetta per il Bacino delle Orcadi e non vi è alcuna corrispondenza per giacimenti in Inghilterra o nel Galles». I cristalli di zircone, rutilo e apatite sono quasi indistruttibili e vengono essenzialmente riciclati nel corso di eoni man mano che le montagne vengono costruite ed erose.

I ricercatori hanno datato i cristalli presenti nella Pietra dell’altare ad un miliardo di anni fa. Il fatto che tali minerali si trovino in Scozia lo si spiega grazie al fatto che l’isola, un tempo, faceva parte di un antico segmento continentale chiamato Scudo Laurenziano, che si trovava nell’attuale Canada orientale.

Le vecchie arenarie rosse trovate altrove in Gran Bretagna non contengono cristalli così antichi, perché il resto del Paese faceva parte di un segmento continentale più giovane chiamato East Avalonia.

«L’Altare di Pietra poteva provenire solo dalla Scozia», sottolinea Clarke, “cresciuto” nelle montagne Mynydd Preseli, da dove provengono altre pietre blu. Come la pietra sia stata trasportata nel sud dell’Inghilterra dalla Scozia o dalle isole Orcadi è già oggetto di acceso dibattito.

I geologi hanno escluso l’idea che i ghiacciai possano averla trasportata fin dove si trova adesso. «Non ci sono semplicemente prove al riguardo. È stata portata qui dall’intervento umano», sostiene Clarke. Se le persone della Britannia neolitica lo abbiano spostato via terra o via mare è una questione aperta. La terra tra la Scozia e Stonehenge è accidentata, il che rende il viaggio difficile, ma anche un viaggio via mare sarebbe stato rischioso. «Non riesco a immaginare delle persone rischiare un carico così prezioso in un viaggio così pericoloso», afferma Pitts.

Al contrario, Leary pensa che un viaggio via mare sia il più probabile, il quale sottolinea: «Spesso sottovalutiamo seriamente le loro capacità e tecnologie. Non abbiamo mai trovato nessuna delle loro imbarcazioni, ma sappiamo che erano in grado di trasportare bovini, pecore e capre via mare».

Il surriscaldamento degli oceani

Dopo anni in cui gli oceani hanno agito come pozzi silenziosi sottraendo calore all’atmosfera prodotto dall’uomo, ora stanno iniziando a non accettare più tali condizioni ed è un segno drammatico per l’umanità. Circa il 90 per cento di energia immessa nell’atmosfera sin dalla rivoluzione industriale è stato assorbito dagli oceani della Terra.

Un enorme favore, perché ciò ha protetto la vita sulla terraferma da un eccesso ancor più problematico di quel che vediamo dagli effetti del riscaldamento globale. Questo significa che quel calore, ossia quell’energia, non si «trova nell’atmosfera e quindi non sta fondendo le calotte glaciali e non sta riscaldando il suolo», afferma Till Kuhlbrodt del Met Office, il servizio meteorologico nazionale del Regno Unito.

Questo servizio di accumulo di calore da parte degli oceani però, ha un costo. «Per decenni, le temperature del mare sono aumentate costantemente. Tra il 1993 e il 2022, le temperature medie globali della superficie del mare sono aumentate di circa 0,42°C per decennio», afferma Gregory Johnson della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) degli Stati Uniti su NewScientist.

Ma a marzo 2023, le temperature degli oceani hanno iniziato a salire alle stelle. «Le temperature globali della superficie del mare sono aumentate di circa 0,28°C in soli cinque mesi». Al cambiamento climatico poi, si è aggiunto El Niño, che ha portato temperature ancora più calde della superficie del mare in alcune parti del Pacifico tropicale.

Conseguenze drammatiche

Gli effetti sono stati tragici. Da gennaio 2023 a maggio 2024, lo sbiancamento di massa delle barriere coralline è stato confermato in almeno 62 paesi e territori in tutto il mondo. Tale sbiancamento è una conseguenza diretta del riscaldamento delle acque, con coralli a rischio se le temperature salgono di 1°C o più rispetto al massimo estivo.

Altri cambiamenti, altrettanto preoccupanti, erano meno prevedibili, ma si sono verificati. In Florida, ad esempio, i ricercatori hanno trascorso mesi cercando di capire cosa ci fosse dietro le misteriose morti dei pesci sega.

La risposta si trovava nel fondale marino fangoso. In quello strato di acqua e fango si trovano alghe bentoniche, che generalmente «si fanno i fatti loro», afferma Alison Robertson dell’Università dell’Alabama del Sud. Va però detto che alcune di queste specie di alghe producono tossine che possono influenzare la vita marina, ma il loro numero è solitamente tenuto sotto controllo da altre alghe residenti.

Tuttavia, quando Robertson è stata chiamata in Florida per indagare sulle morti dei pesci sega, il campionamento dell’acqua ha prodotto risultati sorprendenti.

«Il livello di queste microalghe era elevato, non solo nel benthos, ma anche nella colonna d’acqua, il che è molto, molto strano», ha detto a NewScientist. I campioni hanno anche rivelato la presenza di altri tipi di alghe produttrici di tossine. Roberston e i suoi colleghi pensano che l’ondata di calore marino della Florida del 2023 abbia agito come evento scatenante, sconvolgendo l’ecosistema e dando alle alghe produttrici di tossine l’opportunità di diventare dominanti. Ciò spiegherebbe perché molte specie di pesci diverse, più di 50, sono state viste mostrare sintomi di avvelenamento da neurotossine.

I pesci sega potrebbero essere stati i più colpiti tra le specie marine più grandi perché si nutrono di prede sepolte sotto il fondale marino, sollevate dal loro muso, e sono stati quindi esposti a concentrazioni estremamente elevate di materiale velenoso. Sebbene i pesci sega abbiano ormai smesso di morire, ci vorrà almeno un anno di studi prima che si riesca a capire quanto sia stato devastante l’evento.

Le acque oceaniche poi sono naturalmente stratificate, con acqua più calda, più dolce e ricca di ossigeno vicino alla superficie e acqua fredda, salata e ricca di nutrienti più in basso.

Man mano che gli oceani si riscaldano, c’è meno miscelazione tra questi strati, e ciò impedisce ai nutrienti di viaggiare in superficie e all’ossigeno di affondare nelle profondità dell’oceano. Oltre a creare le condizioni per la fioritura delle alghe, questo causa problemi al fitoplancton, piccoli organismi simili a piante che trasformano la luce solare e l’anidride carbonica in zuccheri e ossigeno.

Un blocco della miscelazione tra i vari strati "impedisce ai nutrienti di salire nello strato superficiale, dove il fitoplancton ne ha bisogno", afferma Angus Atkinson del Plymouth Marine Laboratory, Regno Unito. Il calore estremo dell’oceano del 2023 potrebbe aver accelerato il problema.

Un articolo (non ancora sottoposto a revisione) del 2024 indica che il tasso di produzione di fitoplancton, alghe e batteri è crollato del 22 percento a livello mondiale nell’aprile 2023, quando le temperature globali della superficie del mare hanno raggiunto livelli record. Il calo della produzione è stato particolarmente pronunciato nell’Atlantico settentrionale. Non solo c’è meno fitoplancton, ma quello che c’è è più piccolo.

«Questo è un doppio problema se sei un erbivoro, perché queste minuscole cellule sono troppo piccole per essere mangiate dai crostacei planctonici», afferma Atkinson. Ciò ha un effetto a catena per pesci commercialmente importanti come sgombri, merluzzi e aringhe, che si nutrono di crostacei planctonici.

© Riproduzione riservata