Amazon e le altre Big Tech hanno rivoluzionato i mercati e i consumi in pochi anni, ma, sostiene Kathleen Thelen, professoressa di scienze politiche all’Mit di Boston, utilizzano alcune pratiche simili a quelle delle grandi catene di acquisti per posta o di supermercati. Tattiche utilizzate già agli inizi del Novecento.

Naturalmente ci sono una serie di novità, in termini di tecnologia, capacità di gestione dei dati dei consumatori e di chi lavora per loro e c’è la scala globale.

Thelen è visiting professor all’istituto Ciampi della Scuola Normale di Pisa e nei giorni scorsi ha coordinato un importante convegno sulla regolamentazione di Intelligenza artificiale e piattaforme.

A lei abbiamo chiesto di raccontarci quella che chiama “Amazon economy” a partire dalle origini novecentesche. Il suo libro in uscita si chiama Attention Shoppers! American Retail Capitalism and the Origins of the Amazon Economy.

«Molti studi fanno il paragone tra Amazon e le Big Tech e i monopoli del passato, una delle cose che ho cercato di mettere in evidenza nel mio libro è che si tratta di monopoli su cui facciamo affidamento come se fossero servizi pubblici. Non possiamo immaginare di fare una ricerca senza Google o di trovare una strada senza un’applicazione di mappe.

La novità rispetto ai monopoli come quello dell’acciaio è che non solo si tratta di nodi indispensabili dell’attività economica. Con le Big Tech abbiamo un rapporto personale, ci affidiamo a loro in modi nei quali non siamo nemmeno del tutto consapevoli. Queste imprese combinano il potere di essere uno snodo centrale dell’economia e quello di generare un rapporto di dipendenza con i consumatori.

Allo stesso modo hanno ottenuto di rendere il loro marchio popolare, come imprese quali la Lego o Disney. Abbiamo insomma un rapporto intenso e personale con queste aziende che ci imbrigliano in molti modi.

Questo rapporto diretto e non mediato gestito attraverso app, dispositivi che abbiamo costantemente in tasca è anche un modo per usare i consumatori nelle battaglie politiche contro le istituzioni che provano a imporre loro delle regole.

Per fare un esempio tra tanti: Uber è entrata nel mercato Usa dei trasporti approfittando di un vuoto legislativo e quando le autorità hanno cercato di regolamentarla, la app ha inviato a ciascun utente un messaggio che recitava più o meno: “Se vietano Uber, dovrete pagare e aspettare di più per un taxi ma se premete questo pulsante invierete una lettera ai vostri funzionari eletti dicendo loro quanto vi serviamo”».

Consumatori o cittadini? Nel suo libro segnala come alcune campagne per regolare o contenere il ruolo delle app e piattaforme abbiano funzionato…

Ho studiato queste imprese in diversi Paesi per osservare i modi in cui le grandi piattaforme vengono accolte. Se ci sono interessi che si organizzano è possibile evidenziare ciò che si perde e non solo ciò che si guadagna con l’onnipresenza di queste imprese. Quando Uber è sbarcata in Danimarca, i sindacati non hanno sottolineato la precarietà di un rapporto lavorativo senza diritti, ma evidenziato che la maggior parte dei ricavi sarebbe andata fuori dalla Danimarca. In un Paese che fa molto affidamento sulle tasse per mantenere uno stato sociale efficace, l’idea di un’azienda che guadagna e usa le infrastrutture del Paese ma non paga la sua parte di tasse ha fatto sì che i cittadini guardassero a Uber sotto una nuova luce. Ha attivato la loro identità non come consumatori che vogliono risparmiare e non vogliono sapere troppo della parte negativa del modello di business, ma come cittadini con interessi nel loro bene comune. Negli Stati Uniti, poi, molte regole sono a livello dei singoli Stati, il che rende più facile per le aziende ricattare le autorità locali: possono dire “Se la vostra giurisdizione è troppo dura con me, mi trasferirò da qui”. Questo è il loro modus operandi. Austin, in Texas, ha cercato di regolamentare Uber in modo più severo in termini di controlli sul background degli autisti e la risposta è stata “Ce ne andiamo”. Quindi la giurisdizione può competere con loro o trovarsi nei guai. Qui si torna alla popolarità con i consumatori che sono abituati a usare Uber o a non pagare per una consegna Amazon.

Lei segnala un modo parziale di intendere le norme antitrust.

La legislazione antitrust all’inizio del XX secolo doveva servire a domare i monopoli. A partire dagli anni Settanta la Corte suprema e i tribunali di grado inferiore sono giunti a una visione dell’antitrust che ha reso immuni le grandi catene di vendita al dettaglio perché l’unica cosa che viene considerata problematica è ciò che compromette il benessere del consumatore, un’interpretazione figlia dell’influenza della scuola economica di Chicago. E il benessere del consumatore è definito dal prezzo delle merci. Naturalmente le grandi catene, siano esse fisiche come Wal-Mart o online come Amazon, hanno un modello di business costruito intorno alla riduzione del costo delle merci.

Torniamo alla storia, alle origini della Amazon economy…

La storia è lunga, ma il punto cruciale è che negli Stati Uniti, fin dall’inizio, ha preso piede un modello di grande distribuzione basato su costi molto bassi per i consumatori e su un ampio inventario. Cominciò Sears all’inizio del secolo scorso, con cataloghi che arrivavano ovunque, su cui potevi comprare qualsiasi cosa, anche una casa da montare (ce ne sono ancora in giro per gli Usa). Il basso costo si basava su due fattori ieri, come oggi per Amazon: manodopera a basso costo e una dinamica di potere nei confronti dei fornitori. Molte aziende si affidano a questi rivenditori per portare i loro prodotti sul mercato e questa è una enorme fonte di potere per questi gruppi, che possono usarla per chiedere prezzi più bassi. Gli stessi gruppi hanno anche sfruttato le infrastrutture pubbliche: Sears utilizzava il servizio postale non solo per consegnare i cataloghi e le merci nelle case di tutto il Paese, ma anche come intermediario nelle transazioni di denaro con persone che vivevano in zone remote del Paese e spesso senza conto corrente. Amazon ha ridotto notevolmente la sua dipendenza dal servizio postale, ma in passato era un committente enorme e in grado di assicurarsi prezzi molto bassi per le spedizioni. Oggi dispone di un’infrastruttura propria, ma fa ancora molto affidamento sulle Poste per l’ultimo miglio nelle aree isolate, dove non ha senso che Amazon ne costruisca una propria. Queste sono le analogie che mi hanno portato a studiare l’evoluzione commercio al dettaglio Usa. Ciò che distingue Amazon è la dimensione di piattaforma, che consente di avere un inventario che va dal lusso agli articoli di seconda mano, ma è anche un intermediario tra venditore e consumatore. Nel libro gioco con alcune delle somiglianze che collegano Sears ad Amazon, ci sono differenze e similitudini in termini di strategie politiche messe in atto per crescere: violazioni ed elusione del diritto del lavoro, uso massiccio del lavoro temporaneo, mettere in conto di pagare multe salate violando regole che consentano di occupare segmenti di mercato, aggirare le leggi fiscali spedendo da stati dove queste sono più basse. Le differenze riguardano la capacità di estrarre e sfruttare immense quantità di dati in modi che in modi che consentano di operare come intermediari e market maker e la finanza, Amazon e altri sono state in perdita per anni ma hanno approfittato di mercati che davano loro fiducia nell’attesa che queste arrivassero a dimensioni tali da rendersi monopoli indispensabili.

C’è poi il tema del trattamento del lavoro.

Il livello dei prezzi che Amazon può offrire (come del resto Wal Mart) si basa su due fattori, che fanno scendere il costo del lavoro. L’occupazione che offrono non è buona, non offrono grandi benefit e le imprese sono note per essere virulentemente anti sindacati (c’è un solo magazzino Amazon sindacalizzato a New York, in Alabama i lavoratori hanno bocciato la presenza sindacale dopo una battaglia lunga e comportamenti al limite del legale da parte di Amazon, ndr). L’altro elemento su cui si basano i prezzi bassi è l’utilizzo del loro potere monopsonico: molti fornitori dipendono dalla piattaforma per far arrivare i loro prodotti ai consumatori, il che conferisce a queste ultime un enorme potere d’acquisto che viene utilizzato per ottenere concessioni. A loro volta i produttori trasferiscono questa pressione sul costo del lavoro, come ha mostrato un collega del Mit, Nathan Wilmers, in una sua ricerca. Questa strategia, in un settore in cui i sindacati sono quasi assenti, contribuisce alla presenza di milioni di lavoratori a basso reddito che hanno bisogno di prezzi bassi per sbarcare il lunario. Quindi, quello che descrivo nel libro è l’insorgere di quel che chiamo un “equilibrio amaro” in cui le famiglie a basso reddito dipendono da catene e piattaforme per fare shopping a basso costo e queste contribuiscono alla precarietà del mercato del lavoro. Ci troviamo quindi in una situazione paradossalmente difficile che è uno degli aspetti che rende l’intera economia delle piattaforme una grande sfida normativa.

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