Oltre Roma e Parigi sotto esame anche altri cinque governi. Per rispettare le nuove regole del Patto di stabilità serve un taglio di 10 miliardi al disavanzo a cui si aggiungono altri 20 miliardi per la prossima manovra finanziaria. A rischio la riduzione delle tasse e del cuneo fiscale, a meno che Bruxelles non conceda nuovi margini di flessibilità
Arriva la bocciatura di Bruxelles per i conti dell’Italia. Confermando le previsioni della vigilia, la Commissione europea ha annunciato l’apertura di una procedura contro il governo di Roma per deficit eccessivo. Insieme all’Italia finiscono sotto esame anche Belgio, Francia, Malta, Polonia, Slovacchia e Ungheria.
Dopo uno stop di quattro anni, l’Unione torna ad applicare il Patto di stabilità, ma in una versione riveduta e corretta. Quella approvata nel dicembre scorso da tutti i paesi membri, compresa, obtorto collo, anche l’Italia, anche se ad aprile i parlamentari della maggioranza si sono astenuti nel voto finale sul provvedimento.
Si rimette in moto, quindi, il complicatissimo sistema di regole chiamato ad assicurare la cosiddetta sostenibilità dei bilanci dei singoli Stati e il copione sembra già scritto. La Commissione ha messo sotto osservazione i conti di 12 Stati in tutto, con parametri di bilancio superiori ai limiti fissati dal Patto. E cioè il 60 per cento nel rapporto debito Pil e il 3 per cento per il deficit. Bruxelles ha però ritenuto che per Estonia, Finlandia, repubblica Ceca, Slovenia e Spagna lo squilibrio non fosse tale da giustificare l’apertura di una procedura.
Per l’Italia, come noto, i conti del 2023 sono stati chiusi con un disavanzo record, pari al 7,4 per cento del Pil, il più elevato di tutto l’Unione, una cifra lievitata in corso d’anno per effetto degli oneri del Superbonus. La Commissione, nella nota pubblicata in mattinata sottolinea che l’Italia, come la Grecia, presentano ancora una “preoccupante vulnerabilità” dei conti pubblici, che restano sotto osservazione alla luce delle nuove regole. In particolare, per quanto riguarda il debito, l’esame di Bruxelles arriva alla conclusione che “esiste un’alta probabilità che il rapporto debito/Pil sia più alto nel 2028 che nel 2023”. Un’affermazione che contraddice le stime del governo, che invece vede il ritorno a un percorso di riduzione del debito a partire dal 2027, come si legge nel Documento di economia e finanza (Def) pubblicato ad aprile.
Nel Patto che si inaugura quest’anno c’è una parola chiave ed è traiettoria. Nei prossimi giorni la Commissione invierà ai governi con deficit eccessivo il dettaglio delle correzioni da apportare ai conti per rientrare nel limite del 3 per cento imposto dalle regole europee.
Le correzioni vanno applicate nell’arco di sette anni, secondo, appunto, una traiettoria che diventerà definitiva in autunno, dopo che entro il 20 settembre il ministero dell’Economia avrà presentato il proprio piano.
Tagli obbligati
La regola fondamentale è che il deficit va tagliato dello 0,5 per cento ogni anno. Significa che la sforbiciata da dare ai conti vale almeno 10 miliardi di euro. Una correzione pesante, ma poteva andare peggio se Roma non avesse ottenuto uno sconto che consentirà di escludere dal computo finale (solo per i primi tre anni) gli interessi da pagare sul debito, un onere che potrebbe diminuire meno di quanto sperato dal governo, se si faranno attendere nuovi tagli dei tassi da parte della Bce e se i mercati faranno lievitare ancora i rendimenti dei Btp.
Il problema principale però è un altro. La correzione imposta da Bruxelles va infatti ad aggiungersi ai 20 miliardi che servono per confermare anche l’anno prossimo i provvedimenti in scadenza nel 2024, a cominciare dai due più importanti e più onerosi per le casse pubbliche: il taglio del cuneo fiscale, che costa una decina di miliardi, e l’accorpamento di due aliquote Irpef, passate da 4 a 3, che assorbe altri 4,3 miliardi. A queste due voci, su cui la maggioranza di governo ha puntato molto in chiave elettorale, si aggiungono una serie di altri provvedimenti, dalle deduzioni fiscali per le imprese che assumono fino al bonus per le mamme lavoratrici con due figli, che portano il totale dei fondi da trovare a toccare i 20 miliardi.
Se si tiene conto i 10 miliardi che saranno imposti da Bruxelles per tener il passo con il programma di riduzione del deficit si arriva a quota 30 miliardi. Sembra da escludere, proprio per effetto delle regole del nuovo Patto di stabilità, che il governo possa prendere la scorciatoia di una manovra in deficit, come è stato fatto l’anno scorso e anche quello prima.
Per centrare l’obiettivo, quindi, non resterebbe che intervenire sul fronte delle spese oppure trovare nuove entrate. In entrambi i casi i margini di manovra appaiono ristretti, per usare un eufemismo. Il governo non può certo permettersi di alzare le tasse e i proventi della riforma fiscale appena varata, quanto mai incerti, non superano una manciata di miliardi. Anche il capitolo dei tagli presenta al momento molte incognite. La spending review nei bilanci dei ministeri in passato ha sempre dato risultati modesti, per non parlare della riforma delle agevolazioni d’imposta garantite alle più disparate categorie, che comporta un costo politico che mai nessun governo si è dimostrato disposto ad affrontare.
Ecco perché la manovra d’autunno minaccia di diventare un tuffo ad altissimo grado di difficoltà per il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, che domani e venerdì parteciperà alle riunioni di Eurogruppo e Ecofin. E si capisce anche perché Giorgia Meloni speri che la prossima Commissione, quella che uscirà dalle trattative di queste settimane, apra nuovi spiragli di flessibilità nelle maglie delle nuove regole. Del resto, strada facendo, Meloni potrà trovare nuovi alleati pronti a fare pressioni su Bruxelles.
A cominciare dalla Francia, che ha un deficit fuori misura e presto potrebbe avere un governo con la guida a destra, Proprio come Roma.
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