- Leonardo Del Vecchio è stato il più grande industriale italiano: la sua Essilor Luxottica ha 150 mila dipendenti e l'anno scorso ha fatturato quasi 18 miliardi di euro con un utile netto di 2,3 miliardi, circa il 12 per cento del fatturato.
- Eppure la sua storia non simboleggia niente del capitalismo italiano. È stato sempre un'eccezione che ha confermato la regola di una borghesia industriale, simboleggiata pienamente dalla Fiat di casa Agnelli, da 50 anni incapace di ritrovare la sua strada.
- Ha vinto con un’idea: gli occhiali sono un bene essenziale, come le mutande e i calzini. E ha capito il suo tempo: gli occhiali vestono il volto, e per chi ci vede bene ci sono gli occhiali da sole. Cavalca un bene essenziale e lo fa diventare voluttuario.
La vicenda umana e imprenditoriale di Leonardo Del Vecchio, morto a 87 anni nella sua Milano all’alba del 27 giugno, è segnata dai paradossi. Va raccontata perché parliamo di un uomo che, con la produzione di montature per occhiali iniziata 60 anni fa ad Agordo in provincia di Belluno, è diventato di gran lunga il più grande industriale italiano: la multinazionale EssilorLuxottica ha 150mila dipendenti e l’anno scorso ha fatturato quasi 18 miliardi di euro con un utile netto di 2,3 miliardi, circa il 12 per cento del fatturato. Per fare un confronto, l’Eni, in un anno boom come il 2021, ha avuto un utile netto inferiore all’8 per cento dei ricavi.
Eppure la storia di Del Vecchio non rappresenta e non simboleggia niente nella storia del capitalismo italiano. È stato sempre, in ogni momento della sua vita invero romanzesca, un’eccezione. E come tale ha confermato la regola di una borghesia industriale, simboleggiata pienamente dalla Fiat di casa Agnelli, incapace di ritrovare la sua strada dopo che gli shock petroliferi degli anni ’70, la caduta del muro di Berlino e la globalizzazione hanno interrotto la cavalcata iniziata con la ricostruzione negli anni ’50. Del Vecchio la sua strada l’aveva trovata ma i suoi colleghi hanno finto di non vederlo.
È salito agli onori delle cronache quando qualcuno ha scoperto che nelle Prealpi venete si nascondeva l’uomo più ricco (e sconosciuto) d’Italia. Ma è sempre rimasto un outsider, mai è stato preso a modello da quelli che credevano di saperla più lunga, convinti, con i brillanti risultati che abbiamo visto, che in Italia la via del successo imprenditoriale passasse dai ben lubrificati rapporti con la politica. Di lui si è parlato molto quando, da vecchio, si è tolto lo sfizio di giocare qualche miliardo di quelli accumulati per sfidare l’establishment di Mediobanca e Generali. Solo allora l’hanno riconosciuto come uno di loro, “notiziabile”.
Il volo del calabrone
E perciò la storia di Leonardo Del Vecchio è paradossale, un volo del calabrone, una marcia di successo ogni passo della quale è sembrato fuori dallo spazio, dal tempo e dalla logica presente.
La prima stranezza è che si è fatto da solo fuori tempo massimo, con una generazione di ritardo. Il modello noto alla mitologia è quello di Giovanni Borghi della Ignis e di Aristide Merloni dell’Ariston, che subito dopo la guerra intuiscono la domanda di massa di cucine a gas, lavatrici e frigoriferi. E subito dopo ci sono i Luigi Lucchini e gli Emilio Riva dell’acciaio, quelli che vedono il bisogno di tondino d’acciaio per il boom edilizio. Del Vecchio arriva quando il piccolo mondo italiano è già dell’Iri e delle cosiddette grandi famiglie, gli Agnelli, i Pirelli, gli Orlando dei quali i Lucchini e i Merloni si sono fatti vassalli, premiati con la presidenza della Confindustria.
Eppure vince perché (a differenza dei suoi colleghi italiani ma come Bill Gates della Microsoft, Steve Jobs della Apple e Jeff Bezos della Amazon) ha un’idea che funziona: gli occhiali sono un bene essenziale, come le mutande, i calzini e gli antibiotici. E capisce meglio degli altri il suo tempo: gli occhiali stanno diventando il vestito del volto che ridefinisce l’identità delle persone, e per chi ci vede bene ci sono gli occhiali da sole. Cavalca un bene essenziale e lo fa diventare voluttuario. Gli anni ’80 sono tutti per lui.
Il sindaco di Agordo
Del Vecchio rimane orfano a sei mesi, e sua madre, vedova con troppi figli, è costretta ad affidarlo all’orfanotrofio milanese dei Martinitt. Il giovane Leonardo non studia, finisce per caso ad Agordo dove apre un piccolo negozio di ottica, e lì dispiega intuizioni che non si imparano a scuola e neppure alla Bocconi. Può far sorridere che all’inizio della sua azienda ci sia un’operazione schiettamente statalista. Il sindaco di Agordo, alle prese con una crisi economica lancinante dovuta alla chiusura della storica miniera di pirite, dona terreni e immobili a chiunque voglia insediare un’attività produttiva.
Venticinquenne, Del Vecchio si butta a pesce e apre la sua prima fabbrica, e da quel giorno fa del rifiuto di ogni rapporto con la politica la sua religione. Al punto che, molti anni dopo, apprendendo che i suoi manager stanno trattando con il Quirinale per una visita in fabbrica del presidente Giorgio Napolitano, li blocca così: «Io non chiedo favori alla politica». La seconda stranezza di Del Vecchio è che, da Agordo, capisce prima di tutti i colleghi italiani che c’è futuro solo per i player globali, anche se si è sempre vantato, e bisogna dargliene atto, di non aver mai delocalizzato la produzione del suo made in Italy.
Nel 1981 fa la prima acquisizione negli Stati Uniti, nel 1990 si quota alla Borsa di New York (e solo dieci anni dopo approderà a quella di Milano). I media italiani si accorgono di lui incidentalmente nel 1986, quando viene nominato cavaliere del lavoro, ma lo scoprono veramente quando apprendono che nel 1989 è stato l’italiano con il reddito dichiarato più alto. Silvio Berlusconi è secondo, Gianni Agnelli sesto.
Ma la Luxottica ha chiuso il 1989 con poco più di 300 miliardi di lire di fatturato, la Fiat con 52mila, la Pirelli con 10mila, la Olivetti con 9mila. Del Vecchio non è un modello, è solo un piccolo, ignorante occhialaio di Agordo che non sa una parola di inglese e quando gli chiedono di raccontare l’emozione del primo giorno di quotazione a Wall Street ricorda solo che il risotto che è andato a mangiare dopo la cerimonia di iniziazione era molto buono.
La genialità non si eredita
La terza stranezza da anti italiano di Del Vecchio è che non si è mai preoccupato di dare alla sua azienda una continuità dinastica. Con sei figli da quattro matrimoni con tre donne (una l’ha sposata due volte) non sarebbe stata un’equazione semplice. Fatto sta che adesso le azioni della Delfin, la scatola lussemburghese che contiene tutto, sono per il 25 per cento della seconda e quarta moglie Nicoletta Zampillo, e il restante 75 per cento è diviso in sei parti uguali (12,5 per cento ciascuna) tra i figli.
E qui risiede la quarta e più nobile stranezza di Del Vecchio: era formattato con uno stile da aziendina familiare e ha costruito la più efficiente e moderna multinazionale italiana, capace di andare avanti senza bisogno di sapere se gli eredi del fondatore sono capaci. La genialità di un uomo come Del Vecchio non si trasmette con i cromosomi e lui lo sapeva. Anche per questo non dovremo occuparci degli eredi Del Vecchio nel futuro prossimo del capitalismo italiano, e questa è la cosa più moderna e civile che ci lascia l’intraprendente Martinitt milanese.
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