Il 58 per cento dei ceti popolari non trova interessante la propria occupazione. Il 31 per cento (52 nei ceti popolari) denuncia gravi difficoltà a mantenere in equilibrio lavoro e vita familiare. Il 42 per cento degli italiani (58 nei ceti popolari e 47 tra le donne) afferma che nella maggior parte dei giorni non prova alcun senso di realizzazione
Parlare del lavoro vuol dire entrare in una dimensione multiforme e scandagliare la moltitudine di fattori che operano. Partiamo da alcuni dati. Pur con diverse accentuazioni il 33 per cento degli italiani ritiene il proprio lavoro noioso, stressante, un peso o una fonte di malessere. Il 58 per cento dei ceti popolari non trova interessante la propria occupazione. Il 31 per cento (52 nei ceti popolari) denuncia gravi difficoltà a mantenere in equilibrio lavoro e vita familiare. Per il 51 per cento l’azienda in cui lavora offre poche opportunità di crescita professionale e il 24 denuncia relazioni difficili con i capi.
La precarizzazione del lavoro è tra i principali fattori generatori di incertezza e instabilità per il 48 per cento, mentre per il 54 la mancanza di lavoro per i giovani mina le basi della nostra società. Il 42 per cento degli italiani (58 nei ceti popolari e 47 tra le donne) afferma che nella maggior parte dei giorni non prova alcun senso di realizzazione in quello che fa.
Così come il 38 per cento ritiene inadeguato lo stipendio percepito e il 56 per cento (86 nei ceti popolari) afferma di non avere abbastanza soldi per comprare ciò che desidera.
I giovani, di fronte al lavoro, hanno paura di essere sfruttati (40 per cento); di non avere più tempo per se stessi (28), degli orari (24); di non avere tutele (24); di essere poco apprezzati (23); di avere responsabili che hanno meno preparazione di loro (23); di diventare un numero (22) o di incappare in un capo autoritario (15).
Una frattura delle aspettative
Nel complesso le dinamiche in atto portano alla luce un processo articolato di dissonanza occupazionale, di «dasein alienato» per dirla con Heiddegger. Un primo aspetto che i dati portano alla luce è l’erosione del contratto psicologico, come lo definisce la psicologa statunitense Denise Rousseau.
Una frattura delle aspettative non scritte tra lavoratore e datore di lavoro, di cui troviamo traccia nella mancanza di opportunità di crescita e nella paura di essere “solo un numero”.
Un secondo fattore della dissonanza occupazionale è la precarizzazione esistenziale. Oltre alla provvisorietà contrattuale, emerge una dimensione più profonda che tocca l’essenza stessa delle persone: la precarizzazione del lavoro crea un senso pervasivo di insicurezza ontologica.
Un terzo elemento è quello della colonizzazione del tempo-vita. Il tempo, anziché essere un dominio di libertà personale, viene sempre più “colonizzato” dalle logiche del lavoro. Questo si riflette nella paura di non avere più tempo per se stessi e nelle difficoltà di equilibrio vita-lavoro.
Un quarto fattore all’origine del dasein è l’affermarsi di una alienazione multidimensionale, generata dal lavoro e dall’intero processo di costruzione dell’identità attraverso il lavoro.
La mancanza di apprezzamento e le relazioni difficili con i capi riflettono una di queste forme di alienazione relazionale. Un quinto aspetto è la dissonanza valoriale, ovvero la crescente discrepanza tra i valori personali dei lavoratori e quelli percepiti nell’organizzazione in cui operano. Una distonia che alimenta quelle che il filosofo Charles Taylor definisce le «cornici di riferimento» essenziali per l’identità. Infine, l’esperienza del lavoro per molte persone sembra essere divenuta un’esperienza d’ingiustizia.
Una dimensione causata dai modelli manageriali attuali, dall’eccessiva concorrenza tra le persone (con forme limitatamente meritocratiche) e dall’assenza di quella serenità necessaria alle persone per raggiungere la qualità lavorativa che si pretende da loro.
Le ragioni di una crisi
Tensione tra ciò che le persone sperano di ottenere dal lavoro e ciò che vivono; discrepanza tra identità personale e il ruolo professionale; difficoltà a integrare l’immagine di sé con le dinamiche lavorative; accelerazione sociale e individualizzazione radicale, ma anche forme di ingiustizia sono tutti fattori che determinano la tensione tra i bisogni di autonomia, competenza, relazionalità dell’individuo e lavoro. Una dissonanza occupazionale (alienazione) causata dalla disconnessione tra l’autentico essere-nel-mondo (il dasein dei singoli) e l’esperienza lavorativa.
Come ci ricordano i due ricercatori francesi Coutrot e Perez: «Il lavoro ha senso se permette di sentirci utili, di riconoscerci in quello che facciamo rispettando le regole del mestiere e l’etica comune e di sviluppare le nostre capacità e le nostre esperienze». Se la massimizzazione del profitto e dei dividendi è la regola, l’alienazione è il risultato. La crisi della relazione con il lavoro è il frutto dei modelli aziendali e delle logiche produttive, non della scarsa voglia di lavorare delle persone.
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