Il capo dell’Agenzia delle entrate aveva già preso posizione contro la propaganda di governo sul fisco amico, e ora annuncia le dimissioni mentre si certifica il fiasco del concordato fiscale varato dal viceministro Leo
Non è un giorno qualunque quello scelto da Ernesto Maria Ruffini per annunciare le sue dimissioni dal vertice dell’Agenzia delle entrate. Proprio oggi, infatti, sono stati diffusi i primi dati sul sostanziale flop del concordato biennale, misura bandiera del nuovo “Fisco amico” che tanto sta a cuore al viceministro dell’Economia Maurizio Leo.
«Il Fisco non può essere amico, al massimo un corretto interlocutore del contribuente», aveva detto Ruffini ad agosto 2023. Parole che vennero lette come un tentativo di smarcarsi dalla maggioranza di centrodestra che pure pochi mesi prima lo aveva confermato a capo dell’Agenzia. A destra lo attaccarono rimproverandogli di parlar troppo, ma Ruffini è rimasto al suo posto per più di un anno, in una fase che ha coinciso con l’avvio della riforma fiscale varata da Leo.
Il naufragio del concordato biennale, a cui avrebbero aderito 750 mila contribuenti, meno del 20 per cento della platea a cui era rivolto il provvedimento, è un colpo pesante alla propaganda governativa e Ruffini ha evidentemente scelto di sfilarsi proprio adesso per marcare la differenza dai trombettieri del fisco amico.
Primo tra tutti Matteo Salvini, che nei giorni scorsi ha bollato come “inquisitorie” le mail inviate dall’Agenzia delle entrate, su richiesta di Leo, a 700 mila partite Iva a rischio evasione per convincerle ad aderire al concordato biennale. Del resto, era stata proprio la premier Giorgia Meloni, a maggio del 2023, a uscirsene con l’infelice paragone tra le tasse e il «pizzo di Stato», come Ruffini non ha mancato di ricordare nell’intervista al Corriere della Sera con cui ha annunciato le sue dimissioni.
Nei mesi scorsi il capo dell’Agenzia delle entrate ha evitato la polemica diretta, facendo sfoggio di equilibrismo verbale nelle interviste sfruttate per rivendicare i successi della sua gestione. Sin dal 2015, quando Matteo Renzi lo mise a capo di Equitalia, Ruffini ha puntato sulla digitalizzazione dei servizi, a cui in anni recenti, con i governi Conte 2, poi Draghi e infine Meloni, si è aggiunto il ricorso alle banche dati per individuare i contribuenti a rischio.
Il governo dei condoni
Ruffini può vantare anche il miglioramento costante dei dati sul recupero dell’evasione, ma sono scarsi i risultati sul fronte dei controlli, che restano di gran lunga insufficienti per un contrasto serio all’esercito dei contribuenti infedeli. È molto aumentato, invece, il ricorso alla promozione della compliance, con cui i cittadini vengono invitati a sanare gli errori riscontrati nelle loro dichiarazioni dei redditi. Un fisco più morbido, insomma, o almeno che cerca di farsi percepire come tale. Se non fosse che a destra appena possono promuovono sanatorie e condoni, come quello con cui si è cercato di rilanciare il concordato biennale. Ruffini adesso lascia, risparmiandosi l’umiliazione di certificare quest’ultimo fiasco del governo, che ora cerca un nuovo capo dell’Agenzia delle Entrate.
Tra i nomi circolati in queste ore c’è quello di Roberto Alesse, nominato a gennaio del 2023 al vertice delle Dogane, un alto burocrate amico e in passato socio d’affari del capo di gabinetto di Palazzo Chigi, Gaetano Caputi. Tirato in ballo anche Vincenzo Carbone, a capo della divisione contribuenti della stessa Agenzia. Tra i papabili compare pure Gabriele Alemanno, commissaria Consob con un lungo curriculum da dirigente in grandi enti pubblici. La famiglia Alemanno è già ben piazzata al ministero dell’Economia. Il giovane Edoardo Arrigo, figlio di Gabriella Alemanno, è il capo della segreteria di Leo.
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