Le politiche che l’amministrazione Trump intenderà perseguire costituiscono la principale incognita per lo scenario economico del 2025. Le tariffe doganali sono lo strumento principale con cui si vuole ridurre il disavanzo commerciale con Cina ed Europa; ma vengono anche usate come minaccia contro Canada e Messico affinché combattano l’ingresso di droghe sintetiche negli Stati Uniti.

Un aumento dei dazi è molto probabile, ma dalle conseguenze incerte. I dazi aumenteranno il livello dei prezzi negli Usa rendendo più cari tutti i beni importati, con un impatto inflazionistico anche se temporaneo; indurranno un apprezzamento del dollaro, contrariamente a quanto vorrebbe Trump, che in parte neutralizzerà i dazi; mentre il disavanzo commerciale difficilmente si ridurrà in modo sostanziale, in quanto specchio della carenza di domanda interna in Europa e Cina, che usano la loro capacità produttiva per soddisfare la domanda di consumo degli americani.

La difesa degli interessi americani passa anche dal taglio delle spese per la Nato, la volontà di reimpossessarsi del canale di Panama e di comperare la Groenlandia. Trump vuole una generale deregolamentazione, ridurre le tasse, nonostante un disavanzo al 6 per cento del Pil, ma anche la burocrazia e la dimensione del governo federale avendo costituito a questo scopo il nuovo Department of Government Efficiency a guida di Elon Musk. Alcune dichiarazioni di Trump, più che un articolato piano economico, appaiono come una mera tattica negoziale da usare nelle trattative con gli altri paesi: un approccio più da immobiliarista che da statista, come è stato fatto notare, che crea un’enorme incertezza su quale sarà la vera portata della sua politica.

L’impatto sui mercati

L’ incognita Trump ha già avuto un forte impatto sui mercati finanziari. La Borsa ha subito premiato la sua elezione con un rialzo dei titoli medio-piccoli (Russell 2000) e degli industriali, rispettivamente del 10 e 7 per cento a fronte del 5 di Wall Street, ritenendo che avrebbero beneficiato maggiormente delle sue politiche; per poi perdere tutto il loro guadagno ora di Natale. Anche maggiore la volatilità dei titoli di stato.

Oltre ai rischi per la sostenibilità di un disavanzo pubblico già storicamente elevato, la volatilità è anche conseguenza della politica ondivaga della Fed, passata da nessun taglio a fine luglio (inflazione persistente), a uno dello 0,50 per cento a metà settembre (la crescita era diventata il rischio maggiore), scenario confermato da un ulteriore taglio dello 0,25 a inizio settembre, che però è cambiato inaspettatamente nella riunione di fine dicembre in cui la Fed ha preannunciato un rallentamento della fase di discesa dei tassi nel 2025, proprio a causa delle incertezze legate alle politiche di Trump e all’evoluzione del deficit di bilancio.

Un’incertezza che si evince anche dall’enorme dispersione del tasso che i vari governatori della Fed pensano debba prevalere a lungo termine: si va dal 2,3 al 4 per cento. Così il rendimento del titolo di stato decennale è passato dal massimo di 4,7 per cento di fine giugno, al minimo di 3,6 a settembre, per poi risalire al 4,6 odierno: un movimento estremo interamente dovuto alla componente reale del tasso. Le decisioni contraddittorie della Fed sono un segno del cortocircuito che si può creare tra la Casa Bianca e le istituzioni preposte alla gestione dell’economia.

Non è l’unico caso: è bastato infatti un tweet di Elon Musk per imporre ai deputati Repubblicani, in maggioranza al Congresso, di abiurare l’accordo appena raggiunto con l’opposizione democratica su un compromesso fiscale necessario ad evitare lo stop all’attività del governo. Non solo le politiche di Trump, dunque, ma anche la loro messa in atto costituisce un’ulteriore incertezza che pesa sullo scenario economico e la volatilità dei mercati.

È probabile che con l’insediamento di Trump alla Casa Bianca e il passaggio dalle dichiarazioni alle misure concrete, si attenuerà l’impatto dell’incertezza sui mercati finanziari, sulla fiducia dei consumatori (scesa a sorpresa nell’ultima rilevazione) e sulle decisioni di investimento delle imprese.

Prevale quindi l’aspettativa che la domanda interna americana rimanga sostenuta anche nel 2025, la crescita superiore al trend, l’occupazione vicino ai minimi storici, la struttura finanziaria di imprese e banche solida, e la redditività del capitale elevata. E’ probabile che l’inflazione si assesti a un livello superiore al 2 per cento, ma non credo che costituirà un impedimento per ulteriori riduzioni dei tassi da parte della Fed.

La situazione in Cina ed Europa

Ben diversa la situazione in Cina e in Europa. Sarà difficile che la Cina riesca a rilanciare i consumi privati nonostante un deficit pubblico per la prima volta al 4 per cento del Pil, senza contare il previsto ulteriore debito per sostenere gli enti locali, ricapitalizzare le banche e promuovere i consumi privati.

L’esperienza storica insegna, infatti, che ci vogliono anni per compensare l’effetto ricchezza sui consumatori causato da una crisi immobiliare di vaste proporzioni, oltre a scontrarsi con il nazionalismo di Xi Jinping che privilegia le imprese industriali in settori considerati strategici rispetto alla produzione di beni e servizi di consumo. I dazi di Trump rischiano così di aumentare l’eccesso di capacità produttiva che la Cina cercherà di esportare verso l’Europa aggravandone i problemi.

Le previsioni economiche per la Ue, infatti, sono state appena riviste al ribasso: 0,8 per cento nel 2024, 1 nel 2025 e 1,2 nel 2026. Crescita anemica dunque, ma crescita, che dovrebbe essere trainata da una ripresa dei consumi, sostenuti da un aumento del potere di acquisto dei salari dovuta a un’inflazione in rapida discesa, che a sua volta creerà le condizioni per un taglio dei tassi da parte della Bce più rapida del previsto.

Di fronte alla minaccia di imporre dazi e tagliare le spese per la Nato da parte di Trump, e al dichiarato intento di trattare separatamente con ogni singolo paese per aumentare il potere contrattuale, la Ue dovrebbe evitare di rincorrere un irrealizzabile politica unitaria, ma concordare almeno una linea comune su cosa usare pragmaticamente come merce di scambio nel negoziato con Trump: un programma di spesa e armamenti comune per la difesa, e acquisiti di gas naturale liquefatto americano, nell’ambito di una realistica politica di incentivo alle rinnovabili, sono le due ovvie opzioni che vengono in mente.

Francia, Germania e Italia

Ma sarebbe ancora più lungimirante sfruttare il protezionismo americano per reindirizzare la crescita, Germania e Italia in primis, dalle esportazioni ai consumi privati, sfruttando il vasto mercato interno europeo. Per questo però, bisognerebbe ripensare le politiche fiscali implicite nel patto di stabilità, a favore di un prolungamento dei piani di rientro, promuovendo il sostegno ai consumi, ed escludendo gli investimenti comuni concordati dal calcolo dei deficit programmati.

Le crisi politiche di Francia e Germania, seppur per ragioni opposte, sono la più chiara indicazione dell’esigenza di ripensare la politica fiscale in Europa: in Francia, il tentativo di formare un governo che vorrebbe tagliare il deficit in tempi certi si scontra con una maggioranza di forze politiche che, seppure da estremi opposti, si oppongono all’austerità fiscale perché intercettano il malessere sociale causato da una riduzione del potere di acquisto e del benessere generale; in Germania il governo è crollato per l’incapacità di trovare un accordo che elimini il limite costituzionale al deficit pubblico, retaggio degli anni del pareggio di bilancio come priorità della politica economica.

E l’Italia? Per quest’anno ci si aspetta una crescita ferma allo 0,5 per cento, la metà di quanto previsto a suo tempo dal governo: solo la Germania ha fatto peggio di noi, ma nel 2026 si prevede che torneremo a indossare la maglia nera d’Europa nonostante sia l’ultimo anno del Pnrr. Trump non può dunque essere l’alibi di un paese dove la produttività ristagna da decenni.

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