L’istanza di aumentare l’impegno pubblico della ricerca è qualcosa di decisivo per la competitività di sistema europea e italiana, ma anche e forse di più per la tenuta democratica e non oligarchica finanziaria delle nostre società liberal-democratiche
Sono già alcuni anni che accademici italiani di prestigio assoluto, fisici, Lincei, un premio Nobel – Ugo Amaldi, Roberto Antonelli, Luciano Maiani, Giorgio Parisi: è giusto fare i nomi di chi ha ancora la capacità non solo di fare scienza e ricerca a livelli altissimi, ma anche di non chiudere questo loro saper fare nei laboratori e nelle università, ma di interpretarne la responsabilità sociale e politica in senso alto – si battono, con documenti, analisi, appelli, perché aumenti in Italia e in Europa l’impegno sul Pil della ricerca pubblica.
Un’istanza che da tempo gode dell’appoggio della Consulta scientifica del Cortile dei Gentili, soprattutto nella persona del suo presidente, Giuliano Amato, e che oggi pare sia giunta all’attenzione del presidente Mario Draghi perché ne tenga conto, come si spera, nel documento sulla competitività europea che gli è stato affidato, di prossima pubblicazione.
Si tratta di un piano ventennale, studiato per essere oltretutto più che sostenibile, se c’è la volontà politica, per promuovere la ricerca pubblica, in particolare la ricerca di base, che – come dimostrato da molti lavori scientifici seri – è componente necessaria dello sviluppo a lungo termine delle società avanzate.
Il piano
Quello che si richiede è un investimento da 180 miliardi, un terzo dei quali sarebbe a carico dell’Ue e due terzi dei 21 paesi, che oggi hanno un’intensità pubblica di R&D (Research and Development, ricerca e sviluppo) inferiore allo 0,75 per cento del Pil. Alla fine del programma, 16 paesi arriverebbero allo 0,75 per cento del Pil – o quasi – e altri cinque paesi, che ne sono molto lontani, moltiplicherebbero per un fattore 2 l’intensità pubblica di R&D del 2024.
Gli effetti di questo investimento sono, a giudizio dei proponenti, molto rilevanti: in sintesi, su vent’anni e con un investimento medio annuale di soli 2,5 miliardi di euro del 2024, l’Ue potrebbe correggere il fatto che la ricerca pubblica di una metà circa dei paesi non potrà – nel lungo termine – contribuire, come dovrebbe, alla competitività dell’Europa.
Questa istanza di aumentare l’impegno pubblico della ricerca è qualcosa di decisivo per la competitività di sistema europea e italiana, ma anche e forse di più per la tenuta democratica e non oligarchica finanziaria delle nostre società liberal-democratiche (ormai largamente presunte, se si alza lo sguardo dai simulacri sempre meno frequentati delle urne e dall’esercizio, certamente benvenuto, più largo e di fatto di massa dei “diritti civili” il cui focus per lo più purtroppo si restringe sempre più alla meno costosa, in termini di redistribuzione della ricchezza, loro espressione affettivo-identitaria sessualmente orientata).
“Fare diritto”
Ormai le Big Tech, ma non solo, finanziano la loro ricerca in proprio, e nella sua implementazione sociale di mercato “fanno diritto” altrettanto in proprio sul loro territorio di utenza (che è poi la vita delle persone in larghi ambiti della loro espressione sociale).
Un diritto “proprio” da “Stato patrimoniale” azionario – che somiglia sempre più a modalità di diritto premoderno, con qualche più recente espressione nella storia dell’imperialismo europeo, vedi il Congo Belga di Leopoldo II del Belgio – che oltretutto i nuovi Leopoldo di Silicon Valley, di Big Pharma, e quant’altro di Big si muove bel complesso economico-industriale globale, propongono non solo con le loro politiche aziendali ai loro sudditi-utenti, ma anche, con un lavoro lobbistico evidente, alla statualità nazionale (o quella che ne resta capace di tenergli testa) perché sia recepito.
Un diritto che si prepara in azienda – in quelle che guidano ormai con mezzi propri lo sviluppo scientifico e tecnologico della società oggi del disimpegno pubblico in nome del liberismo – e si propone/impone nella sfera pubblica grazie a una politica che di sua autonomia ha sempre meno. Purtroppo, soprattutto nelle non autocrazie. E questa mi rendo conto è una constatazione difficile da digerire, ma è uno dei fattori che genera la mimesi democratico-liberale dell’affidamento leaderistico del marketing politico oggi.
In sostanza, riprendersi per quanto possibile in mano pubblica ricerca e sviluppo tecnologico è riprendersi democrazia sostanziale. Lo aveva capito già, quanto al nesso politica-scienza, Federico II nel 1224 fondando la prima università pubblica, l’università federiciana di Napoli, che quest’anno ha compiuto ottocento anni.
Forse, se nel Medioevo che viviamo facciamo un po’ di memoria del Medioevo che ha avviato la modernità, non sarebbe male.
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