La settimana scorsa gli elettori americani hanno parlato e ci hanno consegnato un verdetto inequivocabile. Donald Trump torna alla Casa Bianca vincendo sia nel collegio elettorale che nel voto popolare. Questo non vuol dire che gli Stati Uniti siano diventati un paese estremista. Gli spostamenti di voti sono stati complessivamente limitati, ma con un elettorato molto polarizzato e un sistema maggioritario questo è stato abbastanza per dare un vantaggio importante a Trump. In un’analisi a caldo, il recente premio Nobel Acemoglu ha giustamente detto che non ha vinto Trump (che ha più o meno gli stessi voti del 2020), ma Kamala Harris ad aver perso. Infatti, la candidata democratica ha fatto le spese del calo della partecipazione e perso voti in quasi tutte le categorie di elettori.

L’unico gruppo in cui Harris ha guadagnato voti è quello degli elettori con alti livelli di reddito e di istruzione; le élite, insomma. Per dirla ancora con Acemoglu, «i dem si sono persi per strada i lavoratori americani, e in questa elezione non hanno fatto nulla per riconquistarli».

Una crisi anche europea

È ovviamente forte la tentazione di dare del risultato una chiave di lettura americana: l’appeal di Trump su elettori ignoranti, il ruolo dei social e di Musk, le tentazioni isolazioniste, la senilità di Joe Biden, il fatto che il paese non era pronto a una presidente donna e nera, e via di seguito. Sono tutti fattori che hanno sicuramente avuto un ruolo e che magari, essendo l’elezione così sul filo, hanno fatto pendere la bilancia dalla parte di Trump.

Ma sarebbe un errore enorme fermarsi qui. Infatti, la sconfitta dei Democratici è la versione americana della crisi della sinistra moderata che osserviamo in tutti i paesi avanzati; una crisi che non sarebbe stata cancellata da una fortunosa vittoria di Harris (come non lo è stata dalla vittoria sul filo di Biden nel 2020).

Paradossalmente, dopo che la presidenza Obama si era mostrata troppo timida su temi come la globalizzazione, la deindustrializzazione, la disuguaglianza crescente, e dopo lo shock della prima presidenza Trump, che certo non aveva fatto gli interessi delle classi lavoratrici, il “vecchio” Biden ha imposto una virata radicale: rilancio delle politiche industriali, investimenti e incentivi fiscali per trasformare la transizione ecologica in un motore di crescita e benessere, sostegno ai sindacati, protezione selettiva dei settori strategici. Tutto questo ha rappresentato una svolta radicale che ha iniziato a portare benefici.

L’economia statunitense è relativamente in buona salute e la competizione con la Cina per l’egemonia nelle tecnologie verdi è tutt’alto che persa. Biden, insomma, per la prima volta da decenni, ha fatto intravedere che non c’è nulla di ineluttabile nell’aumento della disuguaglianza e nella crisi delle classi medie.

Anche sull’inflazione, cavallo di battaglia dei Repubblicani e al primo posto tra le preoccupazioni degli elettori, Biden è comunque riuscito a limitare i danni per i salari meno elevati e a fare certamente meglio di qualunque altro paese dell’Ocse in termini di protezione del potere d’acquisto. Quella che sicuramente può essere definita l’amministrazione più progressista da decenni ha fatto per le classi medie più di tutti i presidenti democratici recenti.

La corsa al centro 

Eppure, il partito democratico, preda della sindrome per cui “le elezioni si vincono al centro”, ha deciso di non rivendicare questo bilancio, di non indicare che la strada per recuperare il benessere delle classi medie era tracciata e che occorreva proseguire in politiche di regolazione (in senso ampio) di mercati; al contrario, Harris se ne è distanziata, lasciando che la propaganda dei repubblicani demolisse il lavoro fatto. Insomma, la presidenza Biden è stata una parentesi non solo per gli elettori, ma per il suo stesso partito, che durante la campagna si è affannato a proporre un modello di “prosperità condivisa” che assomigliava troppo ai programmi di quella sinistra liberale che, negli Usa come in Europa, ha condotto a ben poca condivisione e a molta polarizzazione.

Insomma, Harris, come Emmanuel Macron, come Olaf Scholz, come molti cantori del progressismo moderato da noi, pensava di vivere ancora in un mondo fondamentalmente stabile in cui classi medie benestanti hanno preferenze per politiche economiche centristi. Il problema dei cosiddetti progressisti, insomma, è che pensano che la massa degli elettori si collochi ancora al centro dello spettro politico per cui adeguando il proprio discorso alle preferenze dell’elettore mediano si vince, con gli estremi che seguono per abitudine o mancanza di alternative.

La perdita della classe media

Ma quel mondo non esiste più. Proprio quelle politiche economiche moderate, presentate come unica scelta possibile (there is no alternative) hanno di fatto significato la rinuncia da parte della politica di stampo progressista a regolare l’economia, dando il messaggio che globalizzazione senza regole, deindustrializzazione, precarizzazione dei mercati del lavoro, disuguaglianza, minore copertura dello stato sociale, fossero semplicemente ineluttabili; e che essere progressisti consistesse solo nel cercare di non lasciar annegare i perdenti.

La politica economica centrista, per le classi medie è stata tutt’altro che moderata, provocando una diminuzione del benessere e uno spostamento verso gli estremi. Al centro dello spettro politico sono rimaste solo le élite benestanti, le uniche ad aver tratto benefici dalle politiche “moderate”.

Con una distribuzione bimodale delle preferenze come quella che si osserva oggi, le politiche centriste non hanno alcun senso. La destra lo ha capito e ha seguito gli elettori, radicalizzando il suo discorso; si pensi all’evoluzione dei Repubblicani negli USA, ma anche a quella dei Conservatori in Inghilterra o della destra gollista in Francia (il cui discorso è indistinguibile dal quello dell’estrema destra).

La “sinistra”, se tale si può chiamare un’offerta politica che non protegge più le classi medie, è rimasta invece a presidiare un centro dove non ci sono più elettori, finendo necessariamente per rappresentare solo le élite benestanti e provando a limitare i danni giocando sulla paura dell’uomo nero (Berlusconi, poi Trump, Le Pen, Orbán, Meloni, Farage; la lista è lunga).

Non è un caso che, dove ha provato ad adottare un programma (sia pur moderatamente) radicale, come in Spagna e recentemente in Francia con l’esperienza del Nuovo Fronte Popolare, la sinistra ha ritrovato degli elettori con cui parlare. Certo, con mille contraddizioni, ma almeno con un’offerta politica in cui un elettorato impoverito e spaventato può trovare qualche risposta.

Insomma, il problema del movimento progressista, oggi, non è che è spostato a sinistra e woke, come vorrebbe far credere chi ha tutto l’interesse a opporre diritti sociali e diritti civili e a tenere la sinistra inchiodata ad un’agenda con la quale non vincerà mai.  Il problema è al contrario che non è abbastanza radicale, e si è perso per strada le classi medie.

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