Per Federal Reserve e Bce l’inflazione non costituisce più il rischio prevalente, e il raggiungimento dell’obiettivo del 2 per cento, una questione di tempo. Uno scenario coerente con l’avvio della fase di discesa dei tassi di interessi.

Le proposte radicali di Donald Trump, che fanno presagire un periodo prolungato del deficit pubblico, tassi elevati sui titoli di stato e una guerra commerciale con il resto del mondo, hanno però generato una forte incertezza sullo scenario di crescita non inflazionistica sottostante alla politica delle due banche centrali.

La Trumpeconomics sovverte alcuni dei principi che hanno regolato l’economia degli ultimi 30 anni: la politica fiscale espansiva porterebbe il disavanzo del governo federale stabilmente a livelli visti nel dopoguerra solo in anni di crisi estreme (il fallimento di Lehman Brothers e la pandemia da Covid); la svolta isolazionista segnerebbe una discontinuità rispetto al lungo periodo di globalizzazione ed espansione del commercio internazionale che hanno caratterizzato la crescita mondale degli ultimi decenni; e lo stop all’immigrazione, oltre alla minacciata deportazione degli irregolari, frena una delle principali fonti di crescita della forza lavoro negli Stati Uniti, già con una disoccupazione vicino ai minimi storici.

Cosa ci aspetta

L’incertezza è grande, ma è possibile ipotizzare che la riduzione delle tasse, la deregulation e l’aumento del disavanzo pubblico Trump agiranno in senso espansivo almeno inizialmente, mentre alla lunga dipenderà dall’aumento dei rendimenti che il mercato richiederà per assorbire il maggior debito pubblico, e quindi dalla sostenibilità dell’onere per interessi per il governo: negli ultimi due mesi, la prospettiva di Trump ha già fatto lievitare il rendimento sui titoli di stato decennali dal 3,6 per cento al 4,5 attuale.

Le barriere tariffarie sono invece recessive perché tendono a sostituire i prodotti importati con produzioni locali maggiormente costose, e perché il disavanzo commerciale americano riflette un eccesso di consumi finanziato dal resto del mondo: se questo disavanzo si riduce per via dei dazi significa anche che la crescita della domanda interna è rallentata, e gli americani hanno ridotto i consumi per aumentare i risparmi.

L’impatto della Trumpeconomics dipenderà dunque anche dalla tempistica delle varie politiche: sarà inizialmente espansivo se il taglio delle tasse e l’espansione fiscale verranno prima delle barriere tariffarie; recessivo nel caso opposto.

Inflazione e politica monetaria

Più incerto l’impatto della Trumpeconomics sull’inflazione e quindi su quale sarà la politica monetaria della Fed. I dazi aumentano i prezzi di quanto viene importato e quindi l’inflazione misurata: ma l’effetto è temporaneo in quanto i dazi costituiscono uno scalino nel livello dei prezzi che viene riassorbito nel tempo, e non tocca il costo dei servizi in quanto prevalentemente domestici, ma che costituiscono la maggior componente dell’indice del costo della vita.

Più importante ai fini dell’inflazione futura è l’espansione fiscale perché aumenta la domanda di consumi e investimenti (visto il taglio delle imposte sugli utili societari e la deregulation); che però a sua volta dipende da quale sarà l’aumento dei tassi richiesto dal mercato per sottoscrivere i titoli di stato, e che potrebbe avere un impatto recessivo sugli investimenti delle imprese e sul settore immobiliare.

Dopo la vittoria di Trump il mercato sconta che la Fed rallenterà la traiettoria di discesa dei tassi sui Federal Funds, e prevede ancora due o tre tagli da 0,25, che porterebbero il cosiddetto tasso “neutrale”, ovvero quello che la banca centrale ritiene compatibile con una crescita non inflazionistica nel lungo periodo, tra il 4 e il 4,5 per cento.

Questo significa che la Fed si aspetta o che l’inflazione si stabilizzi al di sopra dell’obiettivo del 2 per cento, per via di un suo aumento strutturale dovuto principalmente alle tariffe e alla riduzione del commercio internazionale (e quindi il flusso di merci a basso costo da Cina e Messico); o che il tasso reale di equilibrio, ovvero al netto dell’inflazione, si collochi intorno al 2 per cento. Probabilmente entrambe le cose.

Dopo un ventennio di tassi reali nulli o negativi sarebbe un ritorno agli anni Novanta quando il tasso sui Federal funds si collocarono mediamente intorno al 5 per cento, con l’inflazione media al 3, e quindi il tasso reale al 2. Gli anni novanta furono un periodo di crescita stabile ma, a differenza dei prossimi quattro anni della presidenza Trump, segnarono anche l’inizio della globalizzazione e il bilancio federale passò dal deficit al surplus.

La conclusione più plausibile per i prossimi anni è che l’impatto della Trumpeconomics sarà mediamente positivo per la crescita, compatibile quindi con tassi reali più elevati, ma a costo di un’inflazione media che si stabilizza tra il 2 e il 3 per cento: l’implicazione di questo scenario è che la Fed difficilmente rischierà una recessione per raggiungere l’obiettivo del 2. Alla lunga però lo scenario dipenderà in modo cruciale dalla dimensione del disavanzo pubblico e dal tasso sui titoli di stato al quale il mercato sarà disponibile ad assorbire il maggior debito.

I costi per l’Europa

L’impatto della Trumpeconomics sarà asimmetrico con un prevedibile maggior costo per l’Europa. In primo luogo, perché l’Europa ha un avanzo commerciale con gli Stati Uniti che ormai ha quasi raggiunto le dimensioni di quello cinese: ma mentre la Cina cerca di re-indirizzare le esportazioni dal mercato americano proprio verso quello europeo, passando anche per l’intermediazione di paesi terzi, l’Europa non può fare la stessa cosa perché il rallentamento strutturale della domanda interna cinese sta già riducendo la nostra capacità di esportare verso quel paese. L’Europa si troverà quindi schiacciata da una contrazione sia della domanda americana, a causa delle barriere tariffarie, sia dal calo della domanda di consumi cinesi.

I dazi di Trump sulle importazioni dall’Europa potrebbero anche solo essere una minaccia per negoziare un qualche altro vantaggio economico, che comunque costituirebbe un costo per l’Europa. Di fronte all’imposizione di dazi gli esportatori europei verosimilmente sceglieranno di non ribaltarli interamente sul consumatore americano per non perdere quote di mercato, e cercheranno piuttosto di assorbirli con una riduzione dei margini.

L’alternativa, per chi ha la forza finanziaria per farlo, è spostare capacità produttiva negli Stati Uniti. Comunque la si veda per l’Europa, e in particolare per Germania e Italia che sono i due maggiori paesi esportatori, il principale rischio della politica commerciale di Trump è un impatto recessivo, più che inflazionistico.

Mentre il principale rischio della nostra politica commerciale nei confronti della Cina è inflazionistico perché, imponendo barriere tariffarie (da ultimo sulle importazioni di auto) l’Europa sostituisce importazioni cinesi a basso costo con produzioni locali più costose. L’alternativa sarebbe incoraggiare lo spostamento delle produzioni cinesi in Europa, che però spiazzerebbe le industrie locali; una soluzione comunque recessiva.

Lo si vede anche dalle aspettative del mercato che prevede un tasso neutrale nell’Eurozona di 2 – 2,5 per cento, che significa un tasso reale nullo rispetto al 2 per cento degli Stati Unti, segno delle peggiori prospettive di crescita europee.

Manca una strategia comune

Gli Stati Uniti sono un’economia relativamente chiusa, con un deficit commerciale sia con la Cina che con l’Europa, e i consumi la principale fonte di crescita; L’Europa è invece aperta al resto del mondo, trainata dell’export, con un avanzo rispetto agli Stati Uniti, ma un disavanzo con la Cina.

L’isolazionismo ha così un costo contenuto per gli Stati Uniti, che vuole scaricare su Europa e Cina; con quest’ultima che a sua volta cerca di trasferirlo a noi europei. Tra i tre blocchi, rischiamo dunque di fare il vaso di coccio anche perché ogni paese va in ordine sparso, e l’instabilità politica che pervade l’Europa non aiuta a sviluppare quella strategia comune che invece sarebbe indispensabile in questo momento.

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