Perché alcune nazioni sono ricche e altre povere? L’economista turco con Simon Johnson e James A. Robinson ha dedicato i suoi studi alla genesi della diseguaglianza. Il ruolo del passato, la natura delle istituzioni nelle diverse aree del mondo, l’importanza attribuita alla libera competizione
Perché alcune nazioni sono ricche e altre povere? Acemoglu, Johnson e Robinson, i tre studiosi che hanno appena vinto il premio Nobel per l’economia, cercano di rispondere a questa domanda, cruciale, e lo fanno guardando soprattutto alla storia. Per inciso è la seconda volta, di seguito, che il Nobel va in questa direzione: l’anno scorso era stato assegnato a Claudia Goldin, professoressa ad Harvard, che addirittura è una storica dell’economia di formazione.
Daron Acemoglu e Simon Johnson sono degli economisti, più propriamente (James A. Robinson è forse soprattutto uno scienziato politico), ma i loro studi sono rivolti alle cause di lunghissimo periodo dello sviluppo economico.
Affrontano una delle questioni più affascinanti non solo dell’economia, ma dell’intera storia umana: a cosa si devono gli enormi differenziali di sviluppo, benessere (e spesso anche di diritti), che si osservano nel mondo moderno? Si devono forse alla geografia (la ricchezza di risorse naturali, ad esempio; o una conformazione del territorio che favorisca il sorgere di stati accentrati senza però arrivare alla formazione di un unico impero, come in Europa; o la collocazione insulare dell’Inghilterra, che la proietta verso il commercio e il dominio sui mari).
Oppure a un’etica diffusa del lavoro e dell’arricchimento individuale, che ad esempio fu all’origine del capitalismo nell’Occidente protestante e calvinista? (Questa ad esempio era la nota tesi del grande sociologo Max Weber, rinvigorita dai recenti lavori di Deirdre McCloskey). O ancora, dovremmo guardare prioritariamente allo sfruttamento coloniale, all’imperialismo, in sostanza, formale e informale, che alcuni popoli e nazioni esercitano a danno di altri?
Le istituzioni
Secondo Acemoglu, Johnson e Robinson la risposta è nelle istituzioni. In quelle regole, cioè, scritte o anche non scritte («formali» o «informali»), che servono a definire e orientare l’agire umano (e con esso, la stessa cultura, o etica, e il modo in cui ci approcciamo a sfide specifiche o a condizioni di incertezza), come strade e sentieri attraverso cui si muovono individui e società. E le istituzioni si modificano molto lentamente, a volte per fattori accidentali le cui conseguenze, al tempo, non erano prevedibili.
Per i tre studiosi vi sono istituzioni inclusive, di tipo politico (il liberalismo che tutela la proprietà privata e i diritti fondamentali, cioè lo stato di diritto; la democrazia rappresentativa) o economico (il mercato aperto alla libera competizione), che favoriscono la progressiva inclusione dei cittadini – non più sudditi – nel gioco del potere e nella spartizione dei benefici economici, mentre, al contempo, forniscono incentivi all’innovazione e scoraggiano la rendita: sono queste, come quelle impiantate dai coloni inglesi (e olandesi, svedesi) in Nord America a partire dal Seicento, che favoriscono lo sviluppo economico (e l’affermazione di una mentalità a esso favorevole).
Vi sono poi istituzioni estrattive, volte cioè a estrarre la rendita (dalla terra, principalmente) senza innovare, il cui tratto politico è un ordinamento in cui solo a pochi privilegiati, di solito per motivi di nascita, è concesso di accedere al potere (tutti gli imperi e gli stati fondati sulla rigida divisione in classi del mondo pre-industriale), il cui tratto economico è tipicamente la grande proprietà terriera fondata sul lavoro dei braccianti o, peggio, sulla servitù della gleba (come in Russia o nell’Europa orientale, nei secoli della modernità) o addirittura sulla schiavitù (come nel mondo romano, o nelle grandi piantagioni schiavistiche del Sud e del Centro America): sono queste, come quelle impiantate dagli spagnoli e portoghesi in America Latina, che invece lasciano popoli e persone intrappolate nel sottosviluppo.
Smith e Montesquieu
Acemoglu e coautori non sono certo i primi ad aver puntato in questa direzione e ad aver colto queste relazioni. Perlomeno dai grandi pensatori illuministi, quali Adam Smith o Montesquieu, sono in molti ad aver compreso che il ruolo positivo svolto dallo stato di diritto, o da regole che favoriscano una sana competizione e con essa l’innovazione; e, di contro, quello negativo svolto da regimi politici fondati sul sopruso (in cui il sovrano può decidere a piacimento la confisca dei beni di privati cittadini), o dove la violenza e l’incertezza la fanno da padroni, e da regimi economici che promuovano il più feroce sfruttamento del lavoro umano (e, con questi regimi, la rigida divisione della società fra una minoranza di privilegiati che disprezza il lavoro manuale e una stragrande maggioranza di lavoratori lasciati nell’ignoranza e nella privazione, cosa che rende l’innovazione più rara e meno conveniente).
Sono cose perfino ovvie, sotto certi aspetti. Così come non si fa fatica a condividere l’importanza del doppio legame che si stabilisce, nel tempo, fra queste istituzioni e certi costrutti culturali. Già nel 1993, l’economista Douglass North aveva vinto il premio Nobel proprio grazie ai suoi lavori storici sulla relazione fra economia, istituzioni, cultura.
L’originalità di Acemoglu e coautori è nell’analisi della persistenza, cioè nel saper mostrare come istituzioni risalenti a secoli addietro, a volte differenziatisi per puro caso secondo un criterio di «esperimento naturale» simile all’evoluzione darwiniana (il clima, ad esempio, impediva le colonie di popolamento in Centro e Sud America, favorendo invece le piantagioni schiavistiche) possano influenzare i risultati economici dell’oggi.
E quindi nella base empirica (e ovviamente econometrica) a supporto delle loro tesi: nelle correlazioni statistiche individuate tra i fenomeni di allora e i nostri divari di sviluppo. In sostanza, la differenza è nel ruolo assegnato alla storia.
Le critiche
Paradossalmente, tuttavia, Acemoglu e coautori sono stati criticati, proprio per l’uso disinvolto che hanno fatto della storia, piegata a volte o troppo semplificata per meglio favorire le loro tesi, fino al punto di adoperare dati inattendibili o irreali. Questo Nobel è un premio all’importanza della storia ma, verrebbe da dire, non necessariamente a un suo studio rigoroso, fondato ad esempio sul vaglio critico delle fonti. Potrebbe per questa via addirittura far male alla storia, spingendo molti economisti a servirsene senza però conoscerla, senza cioè un’adeguata preparazione (e la tendenza è già in corso).
Queste perplessità, però, concernono la storia, molto meno l’importanza che Acemoglu, Johnson e Robinson hanno per l’economia: che deve studiare il passato, per capire il presente. Su questo la loro influenza è enorme. Chi scrive, ad esempio, ha esplicitamente ripreso la loro impostazione (compresa l’attenta distinzione tra istituzioni formali e le loro modalità effettive di funzionamento), pur con alcune differenziazioni, nel libro Perché il Sud è rimasto indietro (Il Mulino, 2013), che una decina di anni fa ha contribuito a rilanciare gli studi di storia economica del Mezzogiorno in direzione di un maggiore rigore comparativo e quantitativo.
E meritano di essere ricordati, benché non costituiscano la motivazione del Nobel, anche i più recenti interessi di Acemoglu e Johnson: in Potere e progresso (2023, traduzione italiana con Il Saggiatore), i due autori spiegano come, nel corso della storia umana, l’innovazione tecnologica di rado ha spontaneamente distribuito i suoi benefici anche agli strati più svantaggiati della società (anzi!); affinché questo avvenga, occorre una politica che sappia prendere di petto questa sfida. Una lezione attualissima.
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