Le crisi politiche in Francia e Germania, il crescente nazionalismo in Europa e la ridotta rappresentatività della nuova Commissione Ue costituiscono un ostacolo insormontabile all’adozione di un’efficace strategia economica unitaria
La politica, o meglio la geopolitica, rappresenta oggi uno dei principali “rischi” per le economie nel mondo. La guerra commerciale dichiarata da Trump è un rischio economico, generato però dalla sua visione politica, sintetizzata dallo slogan MAGA (“Make America Great Again”). In pratica Trump vuole ridurre il disavanzo commerciale perché i consumatori comprino più beni americani al posto di quelli importati, aumentando così produzione e occupazione negli Usa (“Buy America, Hire America”).
Le “guerre” di Trump
E i dazi sarebbero lo strumento per raggiungere questo obiettivo. Sembra ovvio ma non lo è. Nessuno sa come e in che misura Trump perseguirà la guerra commerciale preannunciata, ma è un dato di fatto che i dazi non necessariamente riducono le importazioni.
Durante il suo primo mandato Trump li ha usati per colpire soprattutto i prodotti cinesi, apparentemente con successo visto che nel quadriennio ha ridotto di 40 miliardi il disavanzo con la Cina. Ma il deficit complessivo americano è invece aumentato nello stesso periodo di 160 miliardi perché molte produzioni sono state spostate in altri paesi, come Messico e Vietnam, che hanno così aumento le loro esportazioni nette verso gli Stati Uniti rispettivamente di 50 e 40 miliardi.
Il commercio internazionale è infatti come un fiume: se un masso interrompe il flusso, l’acqua trova altre strade per scorrere. Se poi Trump costruisse una diga imponendo dazi proibitivi contro tutti i paesi in forte avanzo con gli Usa, come minaccia di fare, anche una diga non fermerebbe tutta l’acqua. I dazi infatti riducono la domanda dei beni importati rendendoli più costosi, a favore di quelli americani, che però le imprese domestiche dovrebbero essere in grado di produrli nelle stesse quantità e qualità: non è possibile però, e neanche conveniente, aumentare la capacità produttiva di tutto, creare l’alternativa con nuovi marchi, e si rischia che l’aumento dei salari eroda i margini visto che la disoccupazione è ai minimi storici; per molti esportatori infine, non sarebbe conveniente spostare capacità produttiva negli Stati Uniti.
Le conseguenze
Il risultato, almeno nel breve termine, è una domanda insoddisfatta per molti beni importati che causerebbe un probabile apprezzamento del dollaro per renderli nuovamente convenienti per il consumatore americano, vanificando così in parte l’impatto dei dazi sul disavanzo estero. La guerra commerciale aumenterebbe pertanto il livello dei prezzi negli Stati Uniti, ridurrebbe i profitti delle imprese americane che hanno delocalizzato, ridurrebbe il commercio internazionale con un impatto recessivo sul mondo, lascerebbe gli Stati Uniti in disavanzo commerciale, causerebbe un apprezzamento del dollaro, che a sua volta metterebbe in crisi i paesi emergenti, costretti ad aumentare i tassi per contrastare la svalutazione delle loro monete.
C’è dunque poca razionalità economica nell’ossessione di Trump con il disavanzo commerciale: i dazi sono quasi diventati uno strumento di politica ad uso interno, se non quasi un’ideologia. Che però mettono in evidenza un reale problema economico: non ci può essere un equilibrio economico mondiale con la crescita di Europa e Cina trainata dalle esportazioni nette, e resa possibile solo grazie alla forte domanda interna degli Stati Uniti e al suo disavanzo con l’estero. L’amministrazione Trump userà i dazi per una dura trattativa fatta singolarmente con gli altri paesi; che a loro volta minacciano dazi e ritorsioni in una guerra commerciale che non è nell’interesse di nessuno.
La strada per evitarla sarebbe quella di riconoscere che il disavanzo americano è figlio della carenza cronica della domanda interna in Europa e Cina, che quindi dovrebbero porre sul tavolo di una trattativa congiunta con gli Usa (per aumentare la forza contrattuale modello Accordo dell’Hotel Plaza nel 1985) politiche fiscali espansive per spingere la loro domanda interna e interventi per sostenere i consumi, in cambio della rinuncia americana ai dazi, ma accettando un dollaro debole.
La debolezza europea
Una trattativa però che imperialismo cinese e nazionalismi in Europa rendono inimmaginabile.
Le crisi politiche in Francia e Germania, il crescente nazionalismo in Europa e la ridotta rappresentatività della nuova Commissione Ue, costituiscono un ostacolo insormontabile all’adozione di un’efficace strategia economica unitaria. Un altro caso di come la politica costituisca oggi un rischio per l’economia.
La guerra in Ucraina e il taglio che Trump vuole imporre alla spesa militare in Europa crea le condizioni ideali per costruire un programma di difesa comune europeo, con coordinamento dei programmi di armamento e le aggregazioni in un settore altamente competitivo, ma molto frammentato secondo linee nazionali.
Gli ostacoli che la politica sta ponendo alle aggregazioni bancarie in Europa (in Italia anche fra banche italiane!) non lascia però ben sperare. E la Commissione rimane sorda a qualsiasi proposta di mutualizzazione del debito, quando perfino il capo della Bundesbank chiede l’abolizione del limite costituzionale al deficit tedesco per finanziare investimenti di interesse comune, come la difesa, un principio che sarebbe ora la Commissione facesse suo.
Le case automobilistiche europee hanno fatto gravi errori strategici e imprenditoriali: le crisi di Stellantis e Volkswagen sono sotto gli occhi di tutti. Ma l’errore che le accomuna è non aver capito in tempo che il passaggio all’elettrico e al plug-in ibrido (EV) non era solo un cambio di motorizzazione, ma da un bene basato sulla meccanica a uno sull’elettronica e informatica: controllo della stabilità, trazione ed erogazione di potenza, sensori, connettività, guida assistita, efficienza delle batterie e intelligenza artificiale non solo per la guida autonoma, che è il futuro, ma soprattutto per progettare e produrre nuove vetture abbattendo tempi e costi. Leader cinesi come Byd e Xiaomi sono nate e si sono sviluppate come società tecnologiche in diversi ambiti: l’auto è arrivata dopo, come uno dei tanti sbocchi del loro know how. E lo Stato cinese ha sussidiato l’EV perché considerato un settore strategico in quanto tecnologicamente avanzato.
Lo stesso vale per Tesla negli Stati Uniti che è in crescita e capitalizza più di 1.000 miliardi nonostante Trump voglia eliminare gli incentivi alla transizione ambientale, perché l’azienda viene considerata al pari di una società tecnologica, nata al di fuori della cultura del settore automobilistico.
Ma la colpa è anche di una visione della Commissione più ideologica e politica che razionale, che ha imposto la transizione all’EV, fatta solo di vincoli e oneri, senza però avere un piano e prevedere le risorse per creare l’infrastruttura necessaria alla sua diffusione, creare la capacità di generazione elettrica per alimentarla, assicurarsi gli approvvigionamenti delle materie prime richieste dalle batterie (e il loro smaltimento), promuovere gli investimenti nelle tecnologie sottostanti l’EV, sostenere gli inevitabili costi sociali, e sussidiarne inizialmente la diffusione.
Non si può tornare indietro nella transizione all’EV perché l’auto e il mercato europeo stanno diventando rapidamente marginali con una quota di mercato nel mondo scesa in un decennio dal 28 al 19 per cento; mentre quella cinese è salita dal 20 al 34 per cento, che diventa 49 con Giappone e Corea. Sono quindi la Cina e gli Stati Uniti di Tesla e del settore tecnologico il mercato rilevante per l’industria dell’auto europea: ed è in questo mercato che deve tornare ad essere competitiva se vuole arrestare il suo declino.
La Commissione dovrebbe quindi abbandonare il suo approccio politico alla transizione all’EV, che non va rinnegato, ma ridisegnato prevedendo, tra le altre, un finanziamento comune per lo sviluppo di tutta la tecnologia che il settore richiede, oltre all’infrastruttura e i sussidi necessari per la sua diffusione. Come per la difesa comune, improbabile che succeda. Un altro rischio “politico” che pesa sullo scenario economico.
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