Hanno creduto alla favola sugli ottocento milioni di consumatori cinesi perennemente intenti a riempire le buste della spesa, che però si sono fermati a meno della metà e a cui è venuto il braccino corto. Hanno investito massicciamente nella seconda economia del pianeta, a tal punto da diventare “ambasciatori di buona volontà” della Cina a Washington, pedine di un gioco più grosso perfino dei loro fatturati multimiliardari: dimostrare al mondo – per arginare le politiche di “de-risking” – che il paese resta aperto e profittevole per il capitale straniero.

Così, ogni volta che sbarca a Pechino, Elon Musk viene introdotto a Zhongnanhai, l’impenetrabile complesso di residenze accanto alla Città proibita dove vivono i vertici del partito comunista.

Tim Cook, al terzo viaggio in Cina nel 2024, può incontrare i leader del Pcc grazie alla sua carica di presidente della scuola di Management dell’Università Tsinghua (quella dove ha studiato Xi Jinping). Howard Schultz nel 2021 ha ricevuto una lettera di Xi con la quale il presidente lo incoraggiava a favorire legami più stretti tra Cina e Stati Uniti.

Ma ora Tesla, Apple e Starbucks navigano in acque agitate e insidiose, per effetto del rallentamento della crescita cinese e dell’arrivo di Donald Trump, che inasprirà la rivalità tra le due principali potenze.

Cook si è presentato lunedì al China International Supply Chain Expo di Pechino. A sostegno della strategia del Pcc di mantenere il paese integrato nelle catene globali di fornitura, i media locali hanno dato grande risalto alla dichiarazione dell’amministratore delegato, secondo cui la sua Apple «non avrebbe potuto fare ciò che ha fatto senza di loro», ovvero senza le 200 compagnie (l’80 per cento delle quali in Cina) che fabbricano le componenti assemblate nei gadget elettronici della casa di Cupertino. Il mese scorso Cook aveva incontrato Jin Zhuanglong. Al ministro dell’Informatica aveva promesso che Apple avrebbe continuato ad «aumentare i suoi investimenti in Cina e promuovere lo sviluppo di alta qualità della filiera».

Eppure nel primo mercato globale degli smartphone i suoi iPhone non se la passano bene. Nel giorno dei single (l’11 novembre), trasformato in due settimane di sconti per stimolare lo shopping compulsivo online, le vendite di iPhone sono scese di oltre il 10 per cento. I dati pubblicati dalla compagnia il 28 settembre scorso dicono che il fatturato annuo è in calo in Cina del 7,7 per centro (67 miliardi di dollari). Aspettando l’autorizzazione governativa, l’iPhone 16 senza intelligenza artificiale è stato scavalcato nelle vendite da Honor (spin-off di Huawei) che, come Xiaomi, ha approfittato dello stop forzato di Apple per mettere in vendita i suoi smartphone dotati di Ia.

Comprare cinese nella Cina di Xi Jinping – che proibisce ai funzionari statali di utilizzare smartphone stranieri – è una testimonianza di patriottismo incoraggiata dall’avanzamento tecnologico dei produttori locali che, lì dove erano più deboli, ad esempio nelle fotocamere, hanno colmato il divario con accordi con prestigiosi brand europei: Xiaomi-Leica, Vivo-Zeiss, Oppo-Hasselblad e così via.

Starbucks cerca soci

Dai cellulari al caffè, anche in questo settore il made in China dà filo da torcere alle corporation a stelle e strisce che avevano riposto le loro speranze nelle magnifiche sorti e progressive del mercato cinese. I cinesi infatti – da quando la frenata si è fatta più brusca dopo il crollo del mercato immobiliare – hanno preso a risparmiare anche al bar. E così Starbucks, che in Cina ha 7.596 negozi, ora cerca investitori, «partnership strategiche che potrebbero aiutarci a crescere a lungo termine», ha reso noto la compagnia.

Il fatturato di Starbucks in Cina (-14 per cento nel terzo trimestre 2024) è stato eroso da rivali locali come Luckin coffee, le cui bevande costano la metà. Anche perché a servirle sono giovani sorvegliati da telecamere che lavorano in micro negozi affacciati sulla strada, spremuti come limoni in turni massacranti.

Come documentato da un’inchiesta del quotidiano The Paper, questi baristi arrivano a servire fino a 500 caffè al giorno. Il loro salario (tra 3.000 e 4.000 yuan, 400-530 euro circa) viene calcolato da un algoritmo in base alla produttività. Negli ultimi mesi sono assurti agli onori della cronaca per clamorosi episodi di insubordinazione, come rovesciare sacchi di miscela addosso a un cliente che protestava per il ritardo nel servizio, oppure, per lo stesso motivo, aggredire un altro consumatore altrettanto impaziente.

Su Xiaohongshu – tra i social più frequentati dai giovani – l’hashtag “schiavo di luckin” ha avuto decine di milioni di visualizzazioni.

La guerra dei prezzi che si combattono queste compagnie è la stessa delle decine produttori locali di auto elettriche: i pesci grossi mangeranno quelli piccoli, e gli oltre 70mila brand attualmente sul mercato sono destinati a ridursi drasticamente.

Da che parte sta Musk?

Anche Tesla è in attesa dell’approvazione da parte di Pechino per la sua tecnologia di guida interamente autonoma. E la posizione di Musk è ancora più delicata di quelle di Cook e Schultz.

Infatti non soltanto Tesla registra in Cina un terzo delle vendite complessive delle sue auto elettriche, ma al magnate sudafricano – che il numero due del Pcc, Li Qiang, ha convinto ad aprire a Shanghai la sua Gigafactory 3 nel 2019 – il presidente eletto, Donald Trump, è pronto ad affidare un ruolo di rilievo nella prossima amministrazione, il che solleva un colossale conflitto d’interessi: quello tra il compito di servire il paese che dovrà rappresentare e i suoi interessi privati in un altro, la Cina, che gli Usa hanno, di fatto, bollato come avversario strategico. «Penso che sia più che pericoloso. Penso che sia una profonda minaccia per la nostra sicurezza nazionale il fatto che Musk e SpaceX si trovino in questa posizione», ha affermato Richard Blumenthal, presidente della sottocommissione giudiziaria del Senato per la privacy e la tecnologia.

Anche Tesla è in difficoltà in Cina. Le vendite di ottobre sono scese del 5,3 per cento su base annua e del 23 per cento rispetto al mese precedente. Negli ultimi mesi gli automobilisti si sono orientati sempre di più verso le macchine ibride, e in questo campo Byd non ha rivali, certamente non Tesla, che fabbrica solo veicoli elettrici.

Nell’attesa che, il 20 gennaio prossimo, Donald Trump faccia nuovamente irruzione nella Casa Bianca, e imponga nuove tariffe, particolarmente salate (fino al 60 per cento) per le merci importate dalla Cina, Pechino prova a utilizzare anche Tesla come esempio di come il paese rimanga aperto e imprescindibile per il capitalismo globale.

Lo stabilimento di Shanghai una decina di giorni fa è stato celebrato nientepopodimeno che da un editoriale del Quotidiano del popolo (organo ufficiale del comitato centrale del Pcc), che ha ricordato che nel 2023 oltre un terzo della sua produzione totale è stata esportata in altri mercati.

Il tappeto rosso steso per Musk da Xi e compagni tornerà utile come canale privilegiato per Pechino per dialogare con la Casa Bianca, a fronte di una squadra di ministri trumpiani che agli occhi dei comunisti cinesi sembrano extraterrestri, e alcuni dei quali sono accanitamente ostili alla Cina, come il probabile segretario di stato, Marco Rubio?

Di fronte alla commissione senatoriale Usa Isaac Stone Fish ha sostenuto che quella di Musk «è una posizione molto, molto difficile». Pechino – ha aggiunto l’amministratore delegato della società di consulenza Strategy Risks – «ama usare la leva finanziaria» sulle aziende e sugli individui statunitensi per promuovere i propri interessi di “sicurezza nazionale”.

La concorrenza delle compagnie locali nei mercati cinesi e la polarizzazione politico-ideologica tra Pechino e Washington stanno accentuando la dipendenza dalla Cina di alcune tra le maggiori corporation Usa. Pechino la utilizzerà contro i dazi e per mantenere la Cina più ancorata possibile al capitalismo globale.

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