«Il Green deal europeo, così come era stato disegnato, è fallito». Il ministro delle Imprese Urso, dal palcoscenico di Cernobbio, ha il suo verdetto. Ma sa bene che la norma europea, in particolare per quanto riguarda le emissioni di CO2 delle auto, è stata approvata poco più di un anno fa e ha un orizzonte al 2035 e oltre. Quello di Adolfo Urso è più che altro un grido di battaglia di tutta la destra europea, che non ha votato l’obbligo di vendere dal 2035 solo autovetture a zero emissioni e cavalca di questi tempi la stagnazione delle vendite di auto elettriche (+1,6 per cento nel primo semestre 2024, con una quota di mercato scesa leggermente al 13,9 per cento) per tentare una nuova spallata.

La destra europea sovranista, ma anche i liberali e la Cdu tedesca, hanno come alleata la lobby europea dell’auto, in difficoltà di fronte alla concorrenza cinese e che rischia un’erosione dei profitti con l’avvento delle auto a batterie. Il presidente di Confindustria Orsini ha definito «una follia» il bando alle auto con motori endotermici dal 2035 e ha ricordato le stime (della filiera) su «fino a 70mila» posti di lavoro a rischio in Italia. Sia Urso che Orsini hanno citato l’attuale momento di difficoltà attraversato dal leader europeo dell’auto Volkswagen come prova dell’impatto negativo della transizione. La “crisi” ha fatto notizia perché i vertici di Volkswagen hanno minacciato di chiudere due stabilimenti in Germania (un evento storico) e di tagliare gli organici nonostante un precedente impegno a evitare esuberi fino al 2028.

«La più grande casa automobilistica europea ha esitato troppo a lungo prima di adattarsi a una concorrenza più dura», ha scritto la Frankfurter Allgemeine Zeitung. «Questo è uno dei più grandi produttori di automobili al mondo che non traduce in profitti tutte le sue economie di scala», ha detto alla Reuters il dirigente di un fondo azionista della Volkswagen. C’è chi ha paragonato le condizioni attuali di Volkswagen con quelle della General Motors prima del fallimento del 2009: management ipertrofico, autoreferenziale e inefficiente, lentezza nel reagire ai cambiamenti tecnologici, e un ruolo di blocco dell’alleanza tra i sindacati aziendali e il Land della Bassa Sassonia, entrambi presenti nel consiglio di sorveglianza.

Volkswagen ha chiuso i primi sei mesi del 2024 con un utile operativo calato sì, ma pur sempre di oltre 10 miliardi di euro; consegne in lieve calo su scala globale e quota di mercato europea in lieve ribasso (-0,3 per cento a 25,6 per cento) ma meno di quella della rivale Stellantis (-0,8 per cento a 16,6 per cento). In realtà i problemi della Volkswagen derivano principalmente da una storica carenza di competitività legata ai costi elevati della produzione in Germania e dal forte calo delle vendite sul mercato cinese, che per anni è stato il più importante per il gruppo tedesco.

Volkswagen paga in particolare i passati successi in Cina. La leadership sul maggiore mercato mondiale (oltre 4 milioni annui alla fine del decennio scorso) ha tenuto alte le vendite e ha permesso così a Wolfsburg di evitare i tagli al personale e agli stabilimenti che hanno invece effettuato tutti i marchi di Stellantis (da Fiat a Peugeot e Opel) ma anche l’americana Ford. A fine giugno il gruppo Volkswagen aveva ancora quasi 300mila dipendenti in Germania su un totale di 682mila.

Una crisi poco elettrica

In tutto questo l’elettrico c’entra relativamente poco. È vero che le vendite delle auto elettriche Vw sono state finora nettamente inferiori alle attese e che nel primo semestre su scala mondiale sono scese dell’1,4 per cento; l’ultimo calo in gran parte per il taglio degli incentivi in Germania a fine 2023. Il presidente del Land della Bassa Sassonia ha reagito chiedendo al governo di Berlino di reintrodurre gli incentivi all’elettrico.

Le difficoltà operative del gruppo tedesco comprendono anche un sostanziale fallimento nel tentativo di creare una propria divisione software, il che a sua volta ha provocato ritardi nei lanci di alcuni modelli elettrici.

Che l’elettrico abbia un ruolo secondario nelle difficoltà dell’auto tedesca, lo dimostra una notizia arrivata ieri dalla Baviera: la Bmw ha corretto al ribasso le previsioni per il 2024 per il calo della domanda in Cina e per richiami e ritardi nelle consegne legati a potenziali difetti ai freni di oltre 1,5 milioni di veicoli. Il taglio dei margini previsti di profitto dall’8-10 per cento al 6-7 per cento ha provocato in borsa uno scivolone di quasi il 10 per cento delle azioni Bmw.

La Commissione

Tornando alla scadenza del 2035, per ora Ursula Von der Leyen e i suoi mantengono la rotta. L’attuale e possibile anche futuro commissario Ue all’Industria, il francese Thierry Breton, ha scritto che «è essenziale conciliare gli obiettivi climatici con la competitività, come riecheggiato nel report di Mario Draghi. Abbiamo un quadro realistico della situazione attuale e di dove dobbiamo accelerare per raggiungere l’obiettivo del 2035». Breton si è anche detto “preoccupato” per i ritardi delle case automobilistiche europee e ha aggiunto che «il compito dei politici non è di stare seduti ad aspettare che i nostri obiettivi per il 2035 si materializzino magicamente», ma di lavorare insieme all’industria per realizzarli.

Urso ha detto a Cernobbio che l’Italia proporrà il prossimo 25 e 26 settembre, in un vertice convocato dalla presidenza ungherese della Ue, di anticipare ai primi mesi del 2025 la prevista “verifica intermedia” dello stato di avanzamento verso gli obiettivi del 2035, attualmente fissata al 2026.

Elly Schlein, leader del Pd, martedì in un evento a Torino ha accusato il governo di non avere alcuna politica industriale per frenare il declino dell’auto ma anche di altri settori; Schlein e il segretario della Fiom Michele De Palma hanno detto che l’insieme dei contributi pubblici a un gruppo come Stellantis (da quelli agli investimenti agli incentivi alle vendite di auto, alla cassa integrazione), andrebbero vincolati a impegni precisi sugli investimenti stessi e sui posti di lavoro.

© Riproduzione riservata