Un’interrogazione di un consigliere rivela il numero di centri di aiuto alla vita nei presidi sanitari. Per il rapporto di Medici del Mondo la regione è pioniera della collaborazione con gli anti-choice
L’emendamento al decreto Pnrr, con cui il governo ha permesso l’ingresso delle associazioni antiabortiste nei presidi sanitari, in Lombardia non era necessario. È da decenni che la giunta regionale ha aperto le porte della sanità pubblica ai privati e, con loro, agli enti di ispirazione cristiana, dando spazio a gruppi e movimenti che si battono contro l’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) e, in alcuni casi, interferiscono con la libertà di scelta delle donne.
Sono 44 i Centri di aiuto alla vita (Cav) nella regione, di cui 18 all’interno di consultori e presidi ospedalieri. Questi numeri sono stati forniti dalla giunta al consigliere regionale Luca Paladini di Patto civico, in risposta a una sua interrogazione. Dati che Federica di Martino, attivista di “Ivg, ho abortito e sto benissimo”, definisce «allarmanti», perché raccontano di una regione che «ha realmente spalancato le porte agli antiabortisti».
“Lombardia apripista”, ha titolato Medici del Mondo nel recente rapporto “Aborto a ostacoli”. Perché «nella regione abbiamo visto accadere un po’ prima quello che accade adesso a livello nazionale», dice un’attivista di Non una di meno. Prima del decreto Pnrr il Consiglio regionale aveva approvato una mozione della Lega che impegnava la regione a introdurre le azioni necessarie «per sostenere (...) il prezioso lavoro dei Cav».
I centri di aiuto alla vita
I Cav sono «le sedi operative del Movimento per la vita», si legge sul sito, il primo movimento antiabortista italiano fondato subito dopo l’approvazione della 194. Sono sparsi sul territorio regionale e in Italia sono quasi 400. Il primo che ha potuto trovare sede in un ospedale è al Policlinico Mangiagalli di Milano, dove c’era anche un consultorio. Questo creava confusione tra i due luoghi, tanto che – racconta nel rapporto Daniela Fantini, ginecologa di Agite Lombardia – alle donne accadeva di andare in ospedale, dopo aver ottenuto il certificato in consultorio, e incontrare «volontari che avevano detto loro che stavano ammazzando il loro bambino».
Dalle risposte fornite a Paladini emerge che ci sono Cav nell’ospedale Buzzi di Milano, in quelli di Magenta e Legnano, così come nell’ospedale di Rho e Garbagnate Milanese. Ancora, nei presidi ospedalieri di Vizzolo Predabissi e Melzo, Busto Arsizio, Gallarate, Vimercate, Bergamo, Seriate, Alzano Lombardo, Crema e Cremona. Lo stesso avviene in alcuni consultori familiari della regione: Gallarate, Lecco, Borgo Palazzo, Alzano Lombardo, Seriate.
I finanziamenti
Molti di questi centri hanno convenzioni con gli ospedali. «Ma quali sono i requisiti in base ai quali i Cav possono stare nelle strutture pubbliche?», chiede Paladini, «qual è il grado di competenza del personale?». La risposta che ha dato la regione, spiega il consigliere, è che non ci sono regole. Paladini teme che in luoghi pubblici e laici possano esserci interferenze importanti sulla scelta di autodeterminazione delle donne.
Nei dati forniti dall’assessore al Welfare Guido Bertolaso non emerge alcuna informazione riguardo al personale di questi centri. «Perché vengono dati fondi pubblici a persone di cui non conosciamo nemmeno le competenze?», sottolinea poi di Martino. L’attivista, con la deputata del M5s Gilda Sportiello, ha lavorato a un’interpellanza alla Camera sulle convenzioni esistenti tra i gruppi anti-choice e le aziende sanitarie. Informazioni che, in base alla risposta, «non sono immediatamente reperibili attraverso una ricerca sui portali regionali». Di Martino spera quindi che l’interrogazione di Paladini possa spingere consigliere e consiglieri di altre regioni a fare le stesse domande.
Tra i dati non facilmente reperibili c’è anche l’entità dei finanziamenti destinati ai Cav che operano all’interno dei presidi. La maggior parte dei centri è iscritta al Runts e accede così ai bandi relativi al terzo settore. Queste informazioni sono state reperite tramite accesso agli atti dalla consigliera del Partito democratico Paola Bocci, che da anni fa un lavoro di raccolta dati sull’accesso all’Ivg nella regione.
«Non ci sono fondi diretti ai Cav», spiega Bocci, «ma vengono finanziati all’interno di progetti più complessi tramite bandi, sostenuti dalla regione e dal ministero». Ad esempio, nei documenti, risulta che il Cav Mangiagalli «è tra i beneficiari in qualità di capofila del bando terzo settore 2023-2025», finanziato dal ministero del Lavoro e dalla regione, e il contributo richiesto è di quasi 40mila euro. Altri hanno richiesto contributi per 100mila euro.
La 194 per le destre
La strategia dei vertici della Lombardia e del governo è usare la 194, una legge che tutela la maternità, per limitare il diritto all’Ivg. Alle interrogazioni di Paladini il sottosegretario Mauro Piazza e Bertolaso hanno risposto che la regione si avvarrà di «tutte le possibilità» a disposizione «per contrastare la denatalità».
«Questo tutto», evidenzia il consigliere, «può anche riferirsi a pressioni e ingerenze nella libera scelta delle donne». Le destre e le associazioni antiabortiste si inseriscono infatti nelle maglie larghe della 194 e permettere l’ingresso di associazioni che sostengono di revocare gli ostacoli che potrebbero indurre la donna all’Ivg, dice di Martino, «per questo è una legge che va ridiscussa». E chiede «perché le politiche per la genitorialità non vengono attuate dalle istituzioni, ma si lasciano filtrare da associazioni di ispirazione cattolica? Perché lo stato non si fa carico delle politiche di welfare?».
Ma non sono solo i Cav a interferire nella decisione delle donne. La Lombardia è l’unica regione ad avere un numero elevato di consultori privati e la maggior parte di questi sono a ispirazione cristiana. Questi, grazie a una delibera del 2000, in violazione della 194, esercitano l’obiezione di struttura e, si legge nel report, spesso sono indistinguibili dai consultori pubblici. Nei presidi pubblici invece, secondo i dati del 2023 raccolti da Bocci, l’obiezione di coscienza in alcune province ha ancora punte oltre il 70 per cento, come a Bergamo. E il 64 per cento delle strutture ha un’obiezione superiore al 50 per cento.
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